Quando passai dalle scuole medie al liceo, mi accorsi che
tra gli aspetti positivi del grande salto c’era senz’altro l’assenza dei
compiti per le vacanze estive. Non più maledetti libri con centinaia di pagine
di raccontini da riassumere ed esercizietti di matematica, ma finalmente l’unica
cosa che reggesse il confronto con i meravigliosi pomeriggi trascorsi a giocare a pallone: la letteratura italiana.
Tra le decine di libri letti in quelle quattro estati
trigoriane, a parte “I Malavoglia”, che dopo una ventina di pagine venne
gentilmente riposto nel cassetto meno a portata di mano possibile, tanti libri
sono diventanti per me un bel bagaglio culturale che ancora oggi mi porto
dietro, tra il desiderio di capire cosa ci sia di tanto avvincente ad Eboli per
convincere Cristo a prendersi un appartamento e la rabbia e la rassegnazione
dei contadini abruzzesi, cornuti e mazziati in quel di Fontamara. In mezzo a
questo mare di libri ce n’era anche uno lunghissimo e voluminosissimo: “La
storia” di Elsa Morante.
Il mio rapporto con questo libro iniziò però, nel
peggiore dei modi: ordinammo 25 copie e ce le consegnarono in aula in un grande
scatolone imballato. Il rappresentante lo aprì davanti alla classe ed io, che
ero casualmente al primo banco, scrutai quei 25 mattoni color crema pronti a
vivere di vita propria tra le mani di ignari diciassettenni. M’accorsi subito però,
che uno dei primi volumi aveva la copertina rovinata e una brutta piegatura sul
lato. “Fa che non lo dà a me, fa che non lo dà a me, fa che non lo dà a me”. E
fu così che tornai a casa proprio con quello più brutto e capii, se mai
avessi avuto ancora dubbi, che dal
giorno dopo mi sarei sempre messo all’ultimo banco. Nonostante l’incomprensione
iniziale, con “La storia”, fin dalle prime pagine fu subito grande amore,
soprattutto perché il romanzone era ambientato a Roma nel periodo della Seconda
Guerra Mondiale e dell’occupazione nazista. Decisamente il mio periodo storico
preferito.
Raccontare più di settecento pagine in poche righe non è uno scherzo
ma ci proverò comunque: una giovane SS violenta una futura vedova romana, già
madre di un figlio quindicenne ribelle e finto simpatizzante fascista. Nasce
Giuseppe e non potrebbe scegliere momento migliore per venire al mondo, visto
che: siamo in piena guerra, San Lorenzo (dove abita) viene bombardata, vive la
tribolata vita da sfollato e i nazisti gli occupano Roma. Una caleidoscopica
serie di personaggi (tra cui anche qualche cane) orbitano intorno a lui e alla
madre, raccontandosi e raccontando una Roma di borgata, scossa e sconvolta da
una guerra che nessuno sa gestire e che nessuno capisce. In un libro così lungo
è normale che ci siano ogni tanto delle parti noiosette, ed in effetti,
soprattutto qualche monologo pseudo anarchico/comunista finale, rompe il ritmo
di un racconto che nel complesso è incalzante, avvincente e pieno di colpi di
scena. Insomma, se “La storia” non può considerarsi certamente un romanzetto da
ombrellone, resta comunque un capolavoro della letteratura italiana e mondiale,
meritevole di lettura, al di là che sia un’anziana professoressa di italiano ad
obbligarti (o caldamente consigliarti) a farlo.
Ora che ricordo, devo confessare che in quelle famose
vacanze estive liceali, anche la professoressa di matematica ci suggeriva sempre
qualche libro di esercizi da fare (e per suggerire intendo obbligare). Solo che
la mia mente trasformava, per l’appunto, l’obbligo in opzione, e quindi,
sceglievo si di comprarlo, ma di compilarlo comodamente in classe, i primi
giorni di lezione a settembre, quando l’ombrellone era già incelofanato in
cantina e il verde spento del banco sostituiva il giallo secco di aridi ed
insettosi campi di grano.