Lasciammo la spiaggia di
Coacuaddos e salimmo verso il parcheggio. Prima ci fermammo ad un
chioschetto ed ordinammo due birre. Dal tavolino dove eravamo seduti,
il mare non si vedeva già più per via di una grande duna che
avevamo costeggiato salendo. Si sentivano voci e forti risate
provenire dalla spiaggia, seppur fossero le sei passate e molte
persone erano tornate a casa. Nel chiosco la musica era bassa e le
voci degli altri clienti erano lievi, rilassate. Occhiali da sole
messi su e un bel sorriso di un pomeriggio di fine agosto. Non dissi
molto, perché non c’era molto da dire. Lei fece lo stesso e bevve
la birra con calma, dalla bottiglia, come se quell’istante non
dovesse finire mai, come se avessimo ancora vent’anni, fossimo una
coppia appena fidanzata e l’indomani sarebbe stato uguale all’oggi.
Ci sentivamo come se i lunedì si fossero estinti. La macchina era un
forno, a nulla valse tenere le quattro portiere aperte e aspettare
che il calore si dissolvesse. Dopo una breve attesa decidemmo di
entrare e avviarci verso il centro dell’isola. Non avevamo una vera
meta. Ad un bivio, girai verso sinistra e cominciai a scendere verso
il versante occidentale. La fitta vegetazione era scomparsa e davanti
a noi, in una piana, si aprivano campi arati, in tutte le sfumature
del giallo e del marrone. Proseguimmo fino ad un grande casale, forse
un’azienda agricola, struttura solitaria in mezzo a quel
meraviglioso nulla. Non c’era recisione e dalla strada, vedevamo
grandi covoni di grano ammassati. Poi, due figure. Da lontano
sembravano persone ma una volta avvicinatisi, scoprimmo che erano
manichini. Vestiti di tutto punto e in posizione rilassata, i pupazzi
se ne stavano appoggiati ai covoni e compivano il loro servizio
spaventando gli uccelli. Costeggiando la proprietà, scoprimmo che i
manichini erano sistemati anche su gli altri lati del campo, ognuno
nella propria posizione: chi a cavallo di una finta bicicletta, chi in piedi a
salutare i passanti, chi abbracciato alla propria compagna. La strada
ricominciò a salire e lo sterrato prese il posto dell’asfalto. Due
maremmani vennero ad abbaiarci e ci accompagnarono per qualche metro,
mentre il sole, ora più basso, era passato dal colore giallo
all’arancione. La strada era molto stretta e dovetti proseguire
piano, per non urtare i rami di mirto e ginepro ai lati della via.
Alla fine della salita trovammo un nuovo bivio. Secondo la piccola
mappa, a destra saremmo andati versi nord dove c’era
un camping, a sinistra, avremmo trovato il sud ed una strada che
forse ci avrebbe ricongiunti con la via asfaltata. Girai a sinistra
ma accostai subito e scesi dalla macchina. Sul lato della strada, un
cartello giallo indicava la località di sa
Corona de su crabi’.
Davanti a noi, il Mediterraneo si apriva in tutto il suo infinito
splendore. Il sole non era ancora tramontato e bruciava lievemente la
nostra pelle scura, mentre il vento ci accarezzava. Da qualche
parte, lì davanti a noi, c’erano le Baleari e poi la costa della
Spagna. Da dove eravamo in quel momento, il pendio scendeva lieve fino al mare ma sarebbe stato impossibile raggiungere l’acqua perché il sentiero,
disegnato tra siepi e rovi intricate, finiva su una piccola scogliera
e non c’erano approdi al mare. Sembrava come se un piccolo vulcano
avesse eruttato e le colate di lava, per cercare la strada del mare,
avessero disegnato stretti sentieri, senza seguire una linea retta ma
adeguandosi ai pendii e agli ostacoli, come il corso di un fiume.
Pochi passi ancora e trovammo una tomba di giganti. Costruita con
grandi massi squadrati, la tomba doveva ever avuto una copertura,
chissà quanti secoli fa, ma rimaneva ancora ben conservata. Era
ancora ben visibile tutto il perimetro di pietra e il basso arco all’ingresso,
talmente basso da costringerci ad inginocchiarci per entrare. Presi il cellulare e cercai qualche informazione sul posto.
Quella tomba veniva fatta risalire a qualcosa come 1400 anni prima di
Cristo. Praticamente stavo toccando la storia dell’umanità. E’ difficile raccontare con parole quello che
provai in quell’istante. Non era più l’eterno attimo perfetto
della birra in riva al mare, era qualcosa di più. Era il tramonto di
una giornata unica, era la pelle arsa dal sole che il vento leggero
raffredda, era la meraviglia dell’archeologia davanti a me e la
felicità del sentirsi un piccolo Indiana Jones. Era il condividere
tutto quello con una persona che capisse cosa stavo provando, era la
polvere e la natura selvaggia da cui eravamo circondati, era la
sensazione di essere eterni senza più altro da desiderare. Era
sentir battere il cuore e cercare di fissare quell’istante e
ricordarlo per sempre, come il proprio concetto di gioia. Tutto era pura gioia.
Proseguimmo a piedi. Più in là trovammo un’altra casa isolata ma
ci accorgemmo ben presto che era disabitata. A distanza di pochi
metri, il paesaggio era di nuovo cambiato: adesso eravamo circondati
da collinette basse, una completamente ricoperta di vegetazione,
l’altra spoglia, con cespugli che crescevano qua e là, come stelle
in un cielo troppo vasto. Dalla casa iniziava un piccolo sentiero che
saliva sulla collina boscosa. Avevo letto che sopra la collina
avremmo dovuto trovare un nuraghe e così affrettammo il passo e ci
incamminammo tra gli alberi, prima che il buio si facesse troppo
fitto. Ora, senza il rumore del mare, il silenzio era ancora più
intenso e si udiva solo un abbaiare di cani, lontano. A metà del
monte, nell’ultimo tratto dove il sentiero era ancora visibile,
trovammo un antico pozzo sacro. C’era un cartello che indicava
scavi archeologici in corso ma parte delle impalcature usate dagli
archeologi erano crollate e la rete che circondava il pozzo era stata
divelta in un paio di punti. Entrammo per qualche metro nel pozzo,
che non scendeva verticalmente, ma gradualmente. Provai a lanciare un
sasso nel vuoto ma sentii il tonfo su altri sassi ed immaginai che il
pozzo sacro non dovesse più contenere acqua chissà da quanto tempo.
Vagammo ancora per la fitta vegetazione per qualche minuto, stando attenti ai rami sporgenti
dei cespugli e a mettere i piedi sui sassi e le rocce meno lisce.
All’improvviso, si aprì davanti a noi uno slargo e ci ritrovammo
sulle rive di un piccolissimo laghetto. Lo specchio d’acqua era
coperto di alghe verdi e insetti e intorno al lago, gli antichi
abitanti avevano ammassato pietre, tanto che visto dall’alto,
sarebbe potuto sembrare quasi una sfera perfetta al centro della
montagna. Ci scattammo una foto con una vecchia macchinetta
analogica, così che solo tornati a casa scoprimmo che l’immagine
era venuta sfocata e di quel laghetto sarebbe rimasto per sempre, solo un ricordo mosso
e due figure sfocate abbracciate sulle sue melmose rive. Mi
arrampicai su una roccia che dall’alto dominava una piccola vallata
sotto di me. Vidi solo il verde della vegetazione e rocce che
affioravano, e la cima della piccola collina, sopra di me. Non c’era
traccia di nuraghe né di sentiero, né di altro uomo sulla faccia
della terra. Rifacemmo la strada all’inverso e arrivammo alla
macchina quando intorno a noi era già buio e le prime stelle si
affacciavano sull’infinita volta del cielo. Scherzammo e decidemmo
che ci saremmo dovuti dare appuntamento lì a capodanno. Senza amici,
senza fuochi d’artificio, senza spumante e senza cellullare. Solo
io e lei e due sacchi a pelo, a guardare le stelle del cielo e ad
augurarci buon anno nel punto in cui il mondo era nato. Riprendemmo la strada inversa,
entrambi eravamo in silenzio. Sapevamo già che a capodanno non saremmo
stati lì e che quel pomeriggio, sarebbe rimasto per sempre un
ricordo, destinato a fondersi e confondersi con altri monotoni giorni consumati in città. Sapevamo che il
giorno dopo sarebbe stato lunedì e che la scura carnagione della
nostra pelle, presto sarebbe stata il ricordo di una bella estate
sarda e nulla più. Nessuno di noi è destinato a rimanere eterno ma
eterno, è quello che possiamo lasciare a chi ci sarà dopo di noi.
Vorrei che quel posto, incontaminato e così pieno di storia,
restasse così per sempre, per permettere a chi verrà dopo di me di
emozionarmi, come quel giorno feci io. E forse chi lo vedrà, potrà
anche piangere di felicità. Di nascosto, come quel giorno feci io.
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