Correva l'anno

Santa Maria dell'Orazione e Morte
Per un momento, ogni cosa intorno smise di fare rumore e tutto si quietò, come se il tempo si fosse fermato. Appoggiato ad una vecchia quercia, un giovane frate socchiuse gli occhi e assaporò quel momento come se fosse un dono personale di Dio, solo per lui. Si immerse nei suoi pensieri ed ebbe la sensazione che, aprendo gli occhi, si sarebbe ritrovato su una montagna, solo, immerso in un panorama di neve accecante e roccia a perdita d’occhio. Fu il fischio di un ragazzo, di là dall’alto muro del giardino, a ridestarlo dai suoi pensieri e a riportarlo alla realtà. Era un’estate torrida e a detta degli altri frati, la più calda degli ultimi anni a Roma. A quest’ora del pomeriggio era impossibile pensare di fare alcunche, se non starsene al fresco nella chiesa, magari a spazzare il pavimento o a meditare sotto il crocefisso. Il frate, assonnato e appesantito dal lungo pranzo, spostò leggermente la testa, quel tanto che basto’ per fissare il muro e ammirare la bella edera che si arrampicava fino all’orlo, per poi ridiscendere dall’altro lato, verso la strada. Il ragazzo che aveva fischiato stava adesso parlando con un altro e si stavano raccontando di quanti pochi pesci erano riusciti a prendere nei giorni prima. Forse il caldo aveva riscaldato troppo l’acqua e gli animali si erano avvicinati al mare o forse erano morti. Ogni tanto mancava di capire qualche parola perché era arrivato da poco tempo in città e non conosceva il gergo del popolo, ma il senso era chiaro, come chiare erano le voci dei due, che sembravano poco più che adolescenti. Il frate tornò a spostare la testa e stavolta si girò verso l’altro lato del giardino, dove c’era un altro muro e una porta che dava verso il cimitero. La prima volta che lo aveva visto, un paio di settimane prima, era rimasto meravigliato dall’enorme numero di tombe che vi trovavano, quasi ammassate una sull’altra. Erano secoli che quel cimitero era lì e nonostante non ci fossero iscrizioni sulle povere lapidi, era evidente che alcune di esse dovevano essere lì da un sacco di tempo. Il campo santo era però tenuto benissimo e nonostante il disordine delle tombe, era piacevole passeggiarci in mezzo, ascoltando il vento che scuoteva i pochi alberi e lo scorrere lento del fiume di là dal piccolo muretto che dava verso il Tevere. Il frate prese un bel respiro e molto lentamente si alzò, rimanendo per un momento appoggiato alla quercia, cercando il coraggio per attraversare il giardino e rientrare nella sagrestia. Attraversò rapido il prato e sentì su di se, per un attimo, tutto il peso del caldo che opprimeva la città. Non era abituato a quel tipo di caldo, lui che era nato e cresciuto tra le montagne intorno a Bergamo. Le lunghe notti estive trascorse nei piccoli rifugi di alta quota o le passeggiate con il padre, in città, sotto la neve che cadeva fitta da novembre a marzo. Decisamente un altro mondo e decisamente un altro clima. Ma adesso era qui e presto si sarebbe abituato a vivere nella città che aveva sempre sognato di vedere e in cui mai avrebbe pensato di vivere.

Entrò nella chiesa e sentì le voci di altri fratelli che stavano chiacchierando tra di loro. Appena lo videro entrare gli fecero un saluto e gli indicarono una panca vicino a loro: “Siediti Lorenzo, vieni qui e prendi un bicchiere di limonata”. Era diventato frate solo da un anno non era ancora abituato a questo stile di vita in cui ogni giorno si poteva mangiare sia a pranzo che a cena, e dove c’era sempre qualche cosa con cui riempirsi lo stomaco, anche negli orari più strani. Anche nel suo paese i contadini e gli altri fedeli gli regalavano cose da mangiare, ma mai aveva visto quello che accadeva qui a Roma, dove ogni giorno c’erano file di popolani e pellegrini che portavano uova, latte e verdura, per offrirle ai frati e ricevere in cambio una benedizione. “Posso dirvi fratelli che da quando sono arrivato qui, penso di aver preso peso come mai in vita mia. Se continuo così tra un anno mia madre e mio padre non mi riconosceranno più”. Nella foresteria della chiesa vivevano stabilmente trenta frati, più un’altra decina di ospiti esterni che alloggiavano solo qualche notte e poi ripartivano. La maggior parte dei fratelli erano originari di Roma e dei paesi vicini, ma alcuni venivano da fuori, da paesi che Lorenzo aveva solo sentito nominare dal maestro di scuola o letto su qualche libro. C’erano di napoletani, di marchigiani, di calabresi e anche di stranieri: un catalano, un frate della Baviera e il più giovane di tutti, un ragazzo di sedici anni che era appena arrivato dalla Francia. “Mi sa tanto che oggi te tocca è, Lorenzo! Sbaglio o non sei mai uscito da quando sei arrivato?” “No non ancora – rispose Lorenzo finendo di bere la limonata – ma a dire il vero pensavo che mi avrebbero fatto aspettare ancora un po’ visto che non sono mai riuscito nemmeno ad uscire dalla strada dove siamo”. “E invece ti tocca proprio – fece verso un altro – prima ti stava cercando Girolamo e voleva sapere se eri qui o se eri uscito”. Girolamo era colui che riceveva le segnalazioni dei morti in città e in campagna e che assegnava il recupero ai vari fratelli. “Vallo a cercare – disse uno dei due frati napoletani – lo troverai nella sua cella”. Lorenzo si alzò e si avviò verso le celle, collocate al lato della chiesa, lungo un corridoio le cui piccolissime finestre affacciavano verso la strada, detta Via Giulia in onore di un vecchio Papa che l’aveva fatta risistemare. Bussò alla porta di Girolamo ed entrò, aspettando dal frate indicazioni sul da farsi. “Siediti – disse Girolamo e gli indicò una piccola sedia appoggiata al muro vicino alla porta – siediti e dimmi cosa ne pensi di questi primi giorni qui. Come ti trovi?” “Benissimo – rispose subito Lorenzo – benissimo davvero. Sono stato accolto nel migliore dei modi e non vedo l’ora di mettermi al servizio della comunità. Per me è un onore essere stato ammesso a far parte di questa Confraternita e vorrei ripagare il prima possibile la fiducia che mi è stata data”. “Vedrai che avrai tutto il tempo per darti da fare ragazzo – gli rispose Girolamo sorridendo – abbiamo grande fiducia in te, sia perché sei giovane e in forze, sia perché il Vescovo ci ha parlato bene di te e della tua famiglia che è molto devota e molto fedele alla Chiesa Romana. Sappiamo che una tua sorella è diventata monaca da poco e che un tuo fratello sta compiendo il cammino per entrare nei Gesuiti”. “Si signore – fece Lorenzo orgoglioso – la nostra è una famiglia umile ma i nostri genitori non ci hanno fatto mai mancare l’educazione cristiana e l’amore verso il prossimo”. “Bene bene – chiuse il discorso Girolamo e voltandosi verso il piccolo crocefisso appeso al muro, si prese un momento di silenzio e poi cominciò a parlare – allora mio caro, sei pronto alla tua prima missione? Io so che prima di partire e venire qui ti hanno spiegato bene cosa avresti trovato e cosa avresti fatto, ma una cosa è sentire dei racconti e l’altra è effettivamente sporcarsi le mani. Dunque, cosa sai del nostra opera?” “Bé signore – fece Lorenzo un poco imbarazzato – noi siamo la Confraternita dell’Orazione e Morte e il nostro compito, da quasi tre secoli, è quello di dare degna sepoltura a tutti quei poveri che muoiono per strada e nessuno va a recuperare. Viviamo di offerte dei buoni di cuore che sostentano la nostra opera e la nostra missione viene esercitata in città tanto quanto fuori dalle mura, in campagna. Qui fuori c’è il cimitero dove seppelliamo i morti, anche se a volte alcuni vengono recuperati che sono ancora vivi e li portiamo negli ospedali della città. Dico bene signore?”. Girolamo sorrise e fece si con la testa, tanto da spingere anche Lorenzo a sorridere di rimando ma ad abbassare lo sguardo per timidezza. “Molto bene mio caro ragazzo, visto che sai bene la lezione è giusto che tu venga premiato. Oggi mi è giunta la notizia che purtroppo un giovane uomo è morto, vicino alla tenuta di Monte Migliore, che si trova ad una quindicina di chilometri oltre la Porta di San Paolo. Andrete tu, Jean il francese più giovane e Fra Gioacchino, che vi spiegherà cosa fare. Abbiamo un carretto e un cavallo ma è fuori da stamattina perché avevamo un altro morto dopo Ponte Milvio, quindi vi porterete la lettiga e basta. Ricordati la borraccia per l’acqua perché con questo caldo sarà dura. Partirete appena possibile perché la strada da fare è lunga”. Lorenzo si congedò e tornò verso l’interno della chiesa, dove nel frattempo gli altri frati si erano separati e rimanevano solo i due napoletani a parlottare tra di loro. Dall’uscio Fra Gioacchino si affacciò nella chiesa e disse a Lorenzo di prendere le sue cose e sbrigarsi: lui e Jean erano fuori ad aspettarlo. “Non credo che riusciremo a fare tutto prima che tramonti il sole, però per quando scenderà, dovremmo essere già sulla via di ritorno, quindi cerca di sbrigarti e portati qualcosa da bere”. Il caldo continuava ad essere opprimente e per le strade, a quell’ora poche persone si avventuravano a passeggiare in vie che non fossero almeno in parte all’ombra.

Roma
Lasciata Via Giulia e la sua grande fontana detta il mascherone, i frati si incamminarono lungo le sponde del fiume lasciando il Ponte Sisto alla loro destra e avviandosi verso l’Isola Tiberina. Lorenzo avrebbe voluto fare tante domande ma per timidezza preferì tacere, sorprendentemente però, fu il francesino a farsi avanti e nonostante il suo italiano scarso prese ad incalzare Fra Giocchino su tutto quello che vedeva. Anche lui era arrivato a Roma da poche settimane e il suo sogno, disse, era quello di vedere l’interno della Basilica di San Pietro. “Ci sarà tempo – gli disse Fra Gioacchino serio – vedrai che tra qualche giorno, quando farà meno caldo e ci sarà meno lavoro, ci faremo una passeggiata e ti porterò a vedere Pio VII”. Al francesino si illuminarono gli occhi e poi candidamente confessò che la sua famiglia era contro la politica di Napoleone e che per loro il Papa rappresentava l’unica vera guida, sia spirituale che politica. Lorenzo lo conosceva bene Napoleone, o meglio, conosceva le sue truppe, che qualche anno prima avevano attraversato Lombardia e Veneto e messo a ferro e fuoco tutto. Nel frattempo che si incamminavano verso Porta San Paolo, Lorenzo continuava a guardarsi intorno incuriosito da ciò che vedeva: dopo solo poche centinaia metri di strade con abitazioni, davanti a lui si erano aperti orizzonti di orti e vigne, splendidi giardini e piccoli prati, ben curati, nonostante il caldo avesse evidentemente distrutto gran parte di fiori e verdura che dovevano essere nati a primavera. Dell’antico splendore delle ville romane e dei monumenti più celebri, ancora non aveva visto nulla, ma quello che vedeva gli piaceva lo stesso, perché immaginava lo spettacolo che avrebbero offerto quegli orti a primavera, quando ormai avrebbe già girato tutta la città e scoperto gli angoli più belli e riservati. Lasciato il corso del fiume e girato verso sud, dopo pochi metri ecco arrivare alla vista le mura della città e la maestosa Porta San Paolo che si apriva verso la campagna e l’Ostiense, la strada che portava al mare. “Forse per lei Fra Giocchino sembrerà strano, ma io non ho mai visto il mare sa?” confessò Lorenzo come per fare un po’ di conversazione. “Anche io non sono mai stato al mare – disse il francesino – Paris non è lontana dalla costa ma ma mère et mon père mi hanno concesso di farmi il bagno solo nella Senna. Conoscete la Senna?”. Fra Giocchino continuò a camminare ma si voltò verso i due ragazzi e disse loro che per il loro bene, sarebbe stato meglio non vederlo il mare a Roma. “Posso assicurarvi figlioli, che il mare è un posto da poveracci e da chi per vivere può solo sperare di pescare qualche pesce. E sappiate che in questa zona, tutte le strade che portano al mare, più si avvicinano alla costa più sono infestate da miasmi putridi e paludi, che portano una malattia terribile che fa venire la febbre e che se non uccide, debilita il fisico fino a non poter più lavorare. Vi consiglio di fare il bagno al Tevere o al massimo aspettare che piova, perché cari miei ragazzi, quello che vedrete fuori da queste mura non vi piacerà, ve lo assicuro”. I tre camminarono lungo la Via Ostiense finché non giunsero nei pressi della grande Basilica di San Paolo fuori le mura. “E’ qui che San Paolo e San Pietro si sono incontrati, dice la leggenda, ed è qui che il primo è stato portato a morire alle Tre Fontane e l’altro a Roma. Prima abbiamo superato una chiesetta, quella giù in fondo, ecco quello è il punto in cui si sono salutati per l’ultima volta, qui invece è la Basilica, ma noi dobbiamo andare, ci sarà tempo per tornare e farci una chiacchierata con chi vi dimora”. Vicino alla Basilica, presso un muro confinante con la chiesa, c’era una grande fontana, che faceva da lavatoio e da abbeveratoio per gli animali che pascolavano nelle collinette dintorno. Alcune popolane si girarono a guardare i tre frati e alcune si fecero il segno della croce salutandoli. Una si avvicinò e riconosciuta la provenienza dei frati chiese a Fra Giocchino dove andassero e per chi fossero usciti. “Abbiamo una povera anima che ci aspetta a Monte Migliore, giù verso il mare e verso la Via Laurentina. Mi confermate che la strada è questa vero?” La popolana indicò con il dito la strada che proseguiva dritta e poi un’altra strada che arrivava da sinistra e che faceva angolo con la Via Ostiense. “Quella la giù è la Laurentina, vede? Quella dicono che arriva fino a Anzio sa? Io nun ce so mai ita ma mio nonno era di quelle parti. Se andate fino a giù state in campana perché questa è la stagione delle febbri e quelle nun perdonano”. Non era la prima volta che Lorenzo aveva sentito parlare di questa febbre ma fino ad ora queste erano state solo voci. Dove viveva lui, solo pochissimi si ammalavano e solo quelli che stagionalmente andavano verso Milano o verso il Fiume Po per lavorare nelle campagne. Si ricordava di persone sdraiate nel letto e tremanti per freddo nonostante la stagione calda e madri dare vino rosso a bambini di pochi anni, convinte che potesse aiutare i figli a stare meglio. Continuarono a camminare lungo la strada finché non svoltarono su Via Laurentina e poi proseguirono dritti. Il paesaggio era costellato da piccole colline, nelle quali si scorgevano grotte e campi di grano arso dal sole. Il rumore delle cicale copriva quello di tutti gli altri insetti e animali che riempivano l’aria con i loro richiami.

All’altezza dell’Abbazia delle Tre Fontane, Fra Girolamo propose una sosta e i tre si sedettero sotto un albero, al limitare di un boschetto di alberi che copriva un’intera collina. Adesso il caldo era leggermente calato ma la camminata sotto il sole cocente aveva affaticato tutti. Lungo la strada continuavano a passare contadini con capre e pecore e ogni tanto qualche uomo a cavallo, con il fucile in spalla e il frutto della battuta di caccia legato alla sella. “Qui caro Jean puoi parlare tranquillamente francese, nessuno ti guarderà storto. Ormai siamo lontani dalla città e qui i tuoi fratelli non hanno portato via nulla di interessante”. Il ricordo dell’occupazione francese e delle spoliazioni volute da Napoleone era ancora vivo nella borghesia e nel popolo romano, ma qui, nella campagna, i francesi si erano solo affacciati e tutti quei contadini che vivevano in villaggi lontani, avevano solo sentito l’eco delle imprese di qualche mese prima. Jean sembrò rassicurato, anche perché effettivamente, si sentiva spesso a disagio, quasi dovesse giustificarsi e chiedere scusa a tutti coloro con cui parlava, per il suo accento e per il fatto di essere francese. “Fra Gioacchino, come le ho raccontato ma famille non ha mai avuto simpatia per le avventure di Napoléon, a parte la sconfitta di Venezia ovviamente, che mio padre considera la peggior nemica della Chiesa”. Lorenzo ascoltava questi discorsi con un misto di stupore ed imbarazzo. L’imbarazzo era dovuto al fatto che conosceva poco o niente di questi argomenti e che nonostante avesse frequentato la scuola, si rendeva conto di aver vissuto per vent’anni dentro una campana di vetro, senza aver mai visto nulla che il suo paese e i suoi monti. Pensò tra se e se alla straordinarietà di quello che stava vivendo in quel momento. Stava vedendo posti che non aveva mai nemmeno immaginato, incontrando persone di cui ignorava l’esistenza, ascoltando versi di uccelli mai uditi prima e respirando profumi e odori nuovi. Ed in fondo, era lontano solo poche centinaia di chilometri da casa. Chissà cosa avrebbe mai visto se avesse potuto viaggiare come Marco Polo in Asia o Amerigo Vespucci in giro per il mondo? Ripreso il cammino dopo qualche minuto di riposo e una bella sorsata d’acqua, ancora leggermente tiepida, nonostante la borraccia di solito la riscaldasse velocemente. Non era facile camminare con il saio, soprattutto visto il gran caldo, ma quanto meno la testa restava riparata e le braccia e le gambe erano protette dai tanti insetti che provavano a poggiarvisi. Fra Giocchino guidava il gruppo e il suo passo era svelto e sicuro, nonostante l’età non più giovane e le migliaia di chilomentri di marcia sulle spalle. Dietro seguivano Lorenzo e Jean, più intenti a guardarsi intorno che a procedere spediti. Ogni tanto passavano sopra qualche piccolo torrente e Fra Giocchino gli indicava dei monti all’orizzonte. Diceva che i corsi d’acqua provenivano da lì, dai Colli Albani, che erano ricchi di antiche ville romane e del vino più buono di tutto lo Stato della Chiesa. Entrati nel territorio di una grande tenuta privata, Lorenzo vide un cartello piantato al lato della strada e si avvicinò per leggere il foglio appeso. Era un proclama papale in cui si avvertiva il viandante e il pellegrino che la zona era infestata da briganti e banditi e che non era consigliato andare in giro di notte né tanto meno farlo portando con se denaro. Nella parte finale del cartello in legno, era incisa con un coltello una parolaccia in romano. Lorenzo la riconobbe e rise, chiamando a se gli altri due compagni per condividere lo scherzo. “C’è poco da scherzare amico mio – fece Fra Gioacchino – qui è pieno di briganti ed assassini che potrebbero tagliarti la gola per un pezzo di pane. Comunque non temete, da diversi anni il nostro superiore è entrato in confidenza con diversi di questi briganti e ci garantiscono la neutralità. Ufficialmente noi diamo loro un po’ delle cose da mangiare che ci portano i fedeli al convento, ma in pratica li paghiamo un tot l’anno per farci lavorare in pace. Ma che resti tra noi, anche se lo sa mezza Roma”. “Parce que dovrebbero volerci far del male? – chiese Jean – in fondo noi raccogliamo i cadavres di poveri sfortunati e qui facciamo un servizio”. “Si lo so – risprse Fra Gioacchino – ma questa è una terra di nessuno, da qui fino al Regno di Napoli comandano in mille e non comanda nessuno. L’autorità del Papa vale come un mozzicone di candela ed è meglio prevenirsi e farsi più amici possibile. Comunque non manca molto, abbiamo superato quella vecchissima chiesa sulla quella collina lì a sinistra e adesso è sempre dritto fino alla tenuta di Monte Migliore. Andiamo che si sta facendo tardi”.

Il sole adesso picchiava molto di meno e un vento leggero si era alzato a consolare il volto sudato e rosso per l’abbronzatura. I Colli Albani sembravano sempre più vicini e Fra Gioacchino indicò a destra, per una stradina sterrata, dicendo che da lì, per una quindicina di chilometri, si arrivava al mare. “Da quella parte c’è una selva bellissima e poi d’improvviso si sbuca al mare, praticamente ci si ritrova sulla spiaggia. vi prometto che un giorno vi ci porto a vedere il mare, ma aspettiamo che faccia più fresco, così magari ci portiamo una canna da pesca e ci divertiamo un po’”. Il gruppo arrivò ad una locanda sulla strada, ai piedi di una piccola collinetta e dalla quale si affacciava un grande prato che diradava verso l’ennesimo boschetto. Nell’aria un odore di zolfo faceva pensare ad una cava nelle vicinanze e per un momento, il puzzo di uovo marcio superò quello delle centinaia di cacche di mucca e pecora sulla strada sterrata. Fra Gioacchino si avvicinò alla porta della locanda e chiese a due donne sedute sulla porta, dov’è che fosse il cadavere che gli era stato segnalato. Le donne chiamarono un certo Millo che si presentò come l’oste e gli disse di seguirli. Attraversarono la strada e scesero verso il grande prato. Oltre al bosco all’orizzonte, prima si scorgeva un canneto che faceva pensare ad un torrente che scorreva al centro della piccola vallata. “L'amo trovato ieri ammatina. Stava buttato sull’erba con a faccia in giù. C’aveva cinque dita de lama de cortello inficcati nella schiena. E tanti de quei lividi che dovevano avello ammazzato de botte armeno in tre. Secondo me è crepato a notte prima. Noi lo avemo semplicemente buttato ner torente e legato co a corda a 'n paletto così che la corrente nun se lo portava. Almeno eravamo sicuri che nun faceva troppa puzza e non se lo magnaveno li cinghiali o le vorpi. E’ 'n fijo de na mignotta che ha passato a vita a rubbà galline e a fa a voce grossa protetto dall'amichi sua briganti. Noi nun c’avemo nisuna intenzione de seppellillo quindi amo chiamato a voi”. “Avete fatto bene - disse Fra Gioacchino mentre superavano la prima fila di alte canne gialle e sentivano sotto i piedi la terra più leggera e fangosa – come si chiamava questa persona? Così lo scriviamo nel registro che teniamo nella chiesa”. “Se chiamava Lucio Corda, detto Nerone, diceva che veniva dalle zone dei Castelli, dal frascatano, ma che li su non c’aveva niente da magnà e allora era venuto giù a rompe er cazzo a noi. Scusi la parolaccia padre”. Poi la guida si fermò e indicò il cadavere del brigante gettato nel torrente, sommerso per metà e per metà a filo d’acqua. Aiutò i frati a trarlo fuori e a caricarlo sulla lettiga. L’odore era forte ma quanto meno l’acqua fredda lo aveva conservato bene, nonostante i piccoli pesci avessero cominciato a pizzicargli il volto e le parti del corpo esposte e senza vesti. “Era 'n fijo de na mignotta ma certo che nessuno je poteva augurà ‘na finaccia così- fece Millo – deve esse stato un regolamento de conti che ne so, magari co quarcheduno dell'amici sua. Secondo noi devono aveje dato appuntamento qui co qualche scusa e poi devono avello fatto fuori. Pace alla mejo anima de li mortacci sua. Padre, prenda sti soldi per il disturbo, li porti in chiesa e dica 'na messa per l'anima sua. Glielo dico, sti sordi erano der morto, l'avemo trovati nelle tasche e nisuno de noi c'ha avuto er coraggio de tenelli. Si manco chi l’ha ammazzato se l’è rubbati, vor dì che era scritto che nun dovesse avelli nessuno”. Adagiarono il corpo sulla lettiga e Jean e Lorenzo la issarono, cominciando a risalire verso la strada principale. Tornati alla locanda gli si fece contro una donna con una bambina in braccio e chiese loro se potessero seguirla in casa perché suo marito non stava bene e voleva sapere se sarebbero stati in grado di aiutarlo. Il morto fu lasciato al lato della strada, sotto un lenzuolo e i tre frati e la donna si incamminarono dall’altro lato della locanda, per una stradina che si addentrata in un prato con l’erba alta. Dopo una decina di minuti arrivarono al limitare di un boschetto, con alberi bassi e cespugli di more a perdita d’occhio. Sotto uno di questi alberi era stata costruita una capanna in legno, con il tetto che sbucava oltre i rami e il buco finale dal quale usciva del fumo grigio di brace. “Siamo arrivati – disse la donna e si accucciò per entrare nella capanna, alla quale mancava un qualsiasi tipo di porta o protezione. “Voi restate fuori – disse Fra Gioacchino – dentro non entreremmo mai tutti quanti. Anzi, intanto che aspettate, cercate nel boschetto se trovate due grossi rami per fare una specie di lettiga improvvisata. Io vado a vedere di che si tratta”. Jean e Lorenzo si addentrarono nel bosco e goderono per qualche minuto del fresco che la copertura dei rami procurava. Trovarono due grossi rami e con un coltello ne tagliarono via i rametti, in modo da renderli lisci e che una persona ci si potesse sdraiare sopra ed essere portata via, verso la strada. Quando tornarono alla capanna, Fra Girolamo era già fuori e con lui la donna e altri quattro bambini, oltre a quella che aveva ancora in braccio. Fra Gioacchino aveva tra le braccia un uomo, avvolto da una coperta e con gli occhi chiusi. Lorenzo rimase impressionato dalla forza del vecchio frate che era ancora in grado di reggere tra le braccia un uomo adulto. Quando però si avvicinò, si accorse che l’uomo era ridotto quasi a pelle ed ossa. Il volto e le braccia erano nere e coperte di croste. I pochi capelli grigi erano stati rasati da poco e con la testa riversa verso l’indietro, la bocca si era aperta e si vedevano i pochi denti rimasti. “Quanti anni ha suo marito?” – chiese Jean senza neanche rendersi conto che aveva espresso un pensiero spontaneo ad alta voce. La donna lo guardò e rispose che ne aveva trentatre. Sembrava averne almeno venti in più e di quello che un tempo doveva essere il corpo di un atletico carbonaro, non rimaneva altro che pelle ed ossa. “Ma che cosa ha?” – chiese Lorenzo mentre vedeva il corpo dell’uomo colpito da brividi. “E’ la febbre malarica. Qui la chiamiamo la terzana. Ve l’ho detto che da qui in poi è zona di morte. I miasmi che emana la terra, quando fa caldo e soprattutto la mattina e la sera, entrano nel corpo tramite il respiro e portano questa malattia. Sono secoli che i Papi provano a sistemare le Paludi Pontine, che stanno più giù, verso Terracina, ma niente da fare, questo posto è maledetto e maledetti sono i disgraziati che ci abitano”. Fra Gioacchino disse a Jean e Lorenzo di reggere i due grossi rami e ci adagiò sopra il corpo, poi gli disse di incamminarsi verso la strada e prese da parte la donna cominciando a parlottare sotto voce. Quando i due raggiunsero la strada Fra Gioacchino era già dietro di loro. “Voi tornate a Roma con il moribondo. Prendete la lettiga e mettetecelo sopra al posto del morto. Confido nel fatto che troverete la via di casa senza problemi ma se riesco vi raggiungo prima che torniate”. “Ce qui se passe? – chiese Jean – cosa ne farà del morto?”. “Non possiamo portarli entrambi a Roma, in tre è impossibile. Voi porterete il malato in chiesa e se arriva vivo, da lì lo porteremo in un sanatorio. Se arriva morto sapete cosa fare. Io resterò qui e mi farò aiutare a seppellire il morto in mezzo a qualche campo. Almeno avrà degna sepoltura anche se in un terreno sconsacrato. Voi andate, io cerco qualcuno che mi aiuti. Comunque sappiate che ho lasciato un po’ di soldi alla moglie del malato. Temo che lui non rivedrà più casa sua”.

Nel frattempo il sole era quasi oltre la linea dell’orizzonte e secondo l’intuito di Lorenzo, mancavano forse pochi minuti alle otto. Sarebbero arrivati a notte fonda, anche perché ora avevano anche la lettiga a rallentarli. Nessuno dei due disse una parola per almeno un’ora e quando passarono davanti al cartello dei briganti, con la luce del sole ormai flebile, entrambi ebbero un sussulto al cuore. Mentre passarono di nuovo di fronte all’Abbazia delle Tre Fontane, di Fra Gioacchino non si aveva ancora notizia e la strada si era definitivamente svuotata da qualsiasi passante. “Io non vedo più nulla – fece Lorenzo – c’è troppa poca luna per illuminare la strada e ho le braccia a pezzi”. Si fermarono esattamente dove avevano fatto sosta all’andata e poggiata la lettiga a terra, si sedettero appoggiandosi ad un albero. Il bosco era nero e adesso la temperatura era calata notevolmente rispetto al giorno. Il corpo del malato ebbe un tremito fortissimo e poi smise di tremare. Ancora un minuto, un altro tremito forte e poi ancora silenzio. “Forse dovremmo bussare all’Abbazia e chiedere di passare la notte da loro. Magari potranno fare qualcosa anche per questo pauvre homme”. Lorenzo fece un segno di approvazione, i due si alzarono, caricarono la lettiga e scesero dalla Via Laurentina verso l’Abbazia, superando l’antico archetto in pietra e bussando alla porta. I frati dell’Abbazia li ospitarono per la notte e poggiarono la lettiga nella navata centrale della chiesa, sotto il crocefisso, l’unico posto e davanti all’unica cosa che forse, avrebbero potuto salvare un uomo praticamente già morto. L’indomani, all’alba, quando i frati accompagnarono Jean e Lorenzo all’interno della chiesa, il corpo del malato era ormai freddo e il padre dei cinque figli morto, con il volto fissato per sempre in una maschera di dolore. “Lasciatelo qua – fece un frate – lo sotterreremo noi nel nostro cimitero. Avete avuto una giornata dura e una notte senza sogni, tornate a casa e che il Signore vi protegga”. Poco prima della Porta di San Paolo, Jean e Lorenzo furono raggiunti da Fra Gioacchino, che aveva viaggiato con il carretto di Millo, venuto a Roma per fare acquisti per la locanda. Fra Gioacchino vide che avevano con se solo la lettiga e non fece domande. Scese dal carretto, salutò Millo e si incamminarono verso la chiesa, passeggiando per una Roma in cui il caldo già si faceva sentire e le popolane con il cesto in testa andavano a lavare i panni al fiume, tenendo in mano un cartoccio di carta con la cenere. Lorenzo dormì per due giorni interi e nessuno lo disturbò, nemmeno per le preghiere e per mangiare. Quando si riprese dalla fatica, gli furono assegnati altri corpi da recuperare e vide, nei mesi avvenire, le tombe degli antichi romani sulla via Appia, la via Aurelia dietro la cittadella del Vaticano, gli orti meravigliosi lungo la via Salaria poco fuori le mura ed altre volte tornò lungo la Laurentina, dove una fredda mattina di novembre incontrò un vero brigante che invece di puntargli un coltello alla gola, gli chiese gentilmente se avesse potuto leggergli una lettera scritta dalla donna amata che viveva a Napoli. Una settimana prima della fine dell’anno, Lorenzo e Jean videro per la prima volta il mare perché con il carretto, si erano recati a Capocotta per recuperare un morto in un fosso che sfociava nel Tirreno. Sulla spiaggia, Jean pianse come un bambino e disse che la cosa che gli mancava più di tutti in quel momento, era la sorella minore, con la quale avrebbe voluto condividere quel momento così bello. Il mare era in burrasca perché nonostante non stesse piovendo un forte vento spazzava la costa. Lorenzo si strinse le spalle per il freddo e sentì un brivido lungo la schiena, senza riuscire a smettere di fissare quelle onde enormi e quell’infinita distesa di acqua verde e blu che gli si apriva maestosa davanti. Sentiva allo stesso momento, il desiderio di fuggire via e quello di gettarsi tra le onde e sfidare i flutti. Come quando camminava sulle montagne e si affacciava sui dirupi. Il terrore di cadere giù e allo stesso tempo il pensiero di gettarsi e capire cosa si provasse a volare come gli uccelli. Erano stati chiamati per un cadavere ma a Roma tornarono con tre. Nella notte erano morte altre due persone e la gente del posto diceva che era stato perché avevano mangiato del pesce avariato. Si trattennero per il pranzo, ospiti della famiglia di due dei morti. Invece di essere tristi, i famigliari ridevano e annaffiarono i poveri piatti con fiumi di vino rosso. Lorenzo non capiva il perché di questa ilarità, poi lo domandò ad un vecchietto che doveva essere il più anziano della famiglia: “Perché ci sono due bocche in meno da sfamare – disse lui sorridendo – e perché tanto prima o poi tocca a tutti, ma meglio te che io”. A differenza dei contadini e dei pastori delle campagne, morti di fame e cenciosi, i pescatori di Capocotta sembrava vivere in condizioni migliori, avevano sempre qualcosa da mangiare e anche quando il mare era grosso e non potevano uscire a pescare, si incamminavano verso la foce del Fiume Tevere e pescavano lì, almeno il poco pesce per il loro sostentamento. Fra Gioacchino gli diceva sempre che chi viveva al mare era il più sfortunato tra i poveri, ma quello che stavano vedendo in quel momento era ben diverso dal pregiudizio e dai pensieri del frate. Lorenzo e Jean mangiarono per la prima volta nella loro vita le telline e risero sentendo nella bocca, ogni tanto, qualche granello di sabbia che si mischiava al vino o al pane sciapo cotto il giorno stesso. “E’ stata la giornata più bella da quando sono in Italia – disse Jean sulla via del ritorno – domani voglio scrivere una lettera alla mia famiglia e raccontargli tous. Non vedo l’ora che venga primavera, hanno promesso che verranno a trovarmi a Roma sai?”. Lorenzo fu d’accordo nel dire che era stata una giornata splendida e chiese a Jean di insegnargli un po’ di francese, così avrebbe potuto parlare anche lui con i suoi genitori quando sarebbero venuti. “E vedrai che se lo chiediamo, magari i frati superiori ci danno l’autorizzazione a fare una gita al lago di Albano, così ci portiamo i tuoi genitori”. La notte stessa Lorenzo fu preso da forti dolori allo stomaco e passò tutto il giorno nel bagno, colpito da diarrea. Il padre superiore lo visitò e fece subito chiamare un noto dottore della zona. Lorenzo peggiorò con le ore e la notte del secondo giorno di diarrea, giaceva ancora sul letto, completamente disidratato e visibilmente asciutto in volto. Il medico tornò a visitarlo e il suo bollettino fu certo: colera. I frati si diedero il turno al capezzale del malato per giorno e notte. Gli diedero acqua e minestra in continuazione e gli somministrarono un tonico consigliato dal dottore. All’alba dell’ultimo giorno dell’anno 1800, Lorenzo giaceva nel suo letto svenuto. In sei giorni aveva perso dieci chili e dalla sera prima non rispondeva più a chi lo chiamava e lo scuoteva. Il medico disse che ormai era finita. Forse il contatto con i morti, forse il mare, forse il destino, chiunque fosse però, il giovane frate lombardo, si stava spegnendo a vent’anni. Esalò l’ultimo respiro mentre i frati pregavano per lui durante la veglia di mezzanotte. Fu sotterrato nel cimitero della chiesa il giorno dopo. Il giorno dopo ancora, la sua famiglia, fatta chiamare d’urgenza dopo la diagnosi di colera, bussò alle porte della chiesa. Fu Jean ad andare ad aprire, con gli occhi ancora velati dal pianto.

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