Mal di schiena (ovvero, il primo tentativo di pubblicare un mio racconto sul blog)

Come il personaggio de “La Metamorfosi” di Kafka, che una mattina si sveglia e si ritrova nelle sembianze di uno scarafaggio, io, una mattina, mi son svegliato e mi sono ritrovato nelle sembianze di uno con la schiena bloccata. Se esteticamente la differenza era notevole, posso comunque assicurarvi che il disagio c’era e che anche io, come il suddetto insetto, ho tratto le mie conclusioni dal nuovo e inaspettato stato di cose. Non che fosse la prima che andavo a letto, la sera prima, con i presupposti di un possibile mal di schiena. Era capitato già in passato che il sonno fosse tormentato da un torcicollo o da un fastidioso infiammamento della parte bassa della schiena, giusto quel tanto da non farti dormire con la schiena in su e costringerti a farlo di lato o a pancia sopra, per attutire il dolore. Tutte quelle volte, le prime volte prima di questa, alla mattina mi alzavo indolenzito, magari con qualche fitta di dolore per scendere dal letto, ma tutto li; nessun’altra spiacevole conseguenza. Ecco, magari no, magari appena appena alzato, ancora qualche passetto insicuro per andare verso il bagno perché il dolore era ancora fresco e il corpo indolenzito dopo le lunghe ore sdraiato, ma poi, se il fastidio perdurava anche dopo qualche minuto, un’aspirina o una tachipirina mi rimettevano al mondo. Come se nulla fosse successo. Anzi, con grande soddisfazione, perché il breve fastidio mi faceva  apprezzare ancora di più la bellezza di avere, se non un corpo sanissimo, quanto meno una schiena funzionante, anche a scapito del doversi piegare tutte le volte con somma attenzione, perfino per raccogliere una semplice penna. Queste cure, queste attenzioni, quanto meno mi permettevano  di correre, camminare, saltare, stiracchiarmi, senza l’incubo di mille aghi conficcati nella schiena. Questo ho pensato la sera mentre andavo a letto e sentivo quel pizzicorino, quell’indolenzimento, chiamiamolo così, che presupponeva ad una notte di dolorini e ad un risveglio da passeggiata zoppicante nel corridoio.

Ma presto, molto presto, il mio corpo, ed io con lui, ci rendemmo conto che quella mattina non sarebbe andato tutto come sempre. Quella mattina il risveglio fu un incubo: anche respirare mi faceva male.


Apro gli occhi e la stanza è ancora immersa nel buio. Dalle serrande abbassate filtra solo una lieve luce ma non è il sole a produrla, solo un freddo lampione a pochi metri dalla mia finestra. Ci metto meno di un momento a sentirlo, il dolorino, ed è subito buongiorno, subito reattivo, perché il sonno scompare all’istante, al primo acuto. Mi sono svegliato come mi sono addormentato, di fianco, e la sensazione che ho, dopo quella del dolore, è quella del volermi smuovere. Mi concentro e comincio a muovere in maniera impercettibile il sedere, giusto per spostarlo un attimo dalla posizione dove ha fatto il solco e capire come reagisce la schiena. Ai. Male. Ma è un male che ci sta. Siamo in un male nella media, fin’ora. Sempre comunque una brutta cosa, ma sembra che possa essere un male come tutte le altre volte. Allungo il braccio e arrivo al cellulare sul comodino. Lo accendo e leggo che sono le sei ed un quarto. La sveglia suonerà tra mezz’ora. Provo a muovermi ancora e ancora il dolore bussa, sempre nella media però. Buono. Decido che per adesso posso anche rimanere in questa posizione, così appoggio di nuovo il cellulare sul comodino e chiudo gli occhi. Senza nemmeno accorgermene mi riaddormento e alle sette meno un quarto la sveglia suona. Mi sveglio subito, allungo di nuovo il braccio e spengo il secondo cellulare. Quello della sveglia. Mi sento bene, anche se il dolorino è sempre li, e decido di alzarmi, di provare a vedere come va. Valutare l’entità del danno. La frequenza delle infiammazioni, sempre più costanti, soprattutto in inverno, mi ha quanto meno insegnato qualcosa: quali movimenti posso fare e quali no. So che se mi alzassi dal letto facendo forza con le gambe, sarebbe come farmi infilzare la schiena da decine di frecce appuntite. Le prime volte, piano piano, riuscivo comunque a muovermi e ad alzarmi, ma ultimamente il dolore è cresciuto e adesso devo fare forza con le braccia. Mi tiro su con il braccio sinistro e tutto procede bene: nessun dolore. Mi metto a sedere sul lato sinistro del letto e piano, molto piano, appoggio le mani ai miei lati e mi tiro su facendo forza contemporaneamente con i piedi. Crack. Il dolore è la somma di tutti i dolori provati da ieri ad ora. La somma di quanti mai provati prima. Le gambe cedono di schianto e a me non resta che lasciarmi cadere sul letto sperando che la schiena smetta di dolere e che la posizione in cui cadrò le piacerà. No. Cado piegato sul fianco sinistro e il dolore aumenta, perché adesso, qualsiasi cosa ci sia dietro questo fulmine, io lo sto stuzzicando e cadendo sento più acuto il dolore. Mi esce un gemito, un ah, che soffoco a mala pena, perché non voglio svegliare chi ancora dorme in casa né allarmare chi è già sveglio. Cade la testa sul cuscino e provo con uno scatto a cambiare lato. Non migliora e in un tempo che a me sembra una vita ma che deve essere stato di cinque secondi massimo da quando ho avuto la prima fitta, mi lascio letteralmente cadere sul pavimento e li, carponi, inarco la schiena verso il dentro e sento che il dolore si placa. Si placa solo però, senza fermarsi. Appoggio la fronte sul comodino e respiro a fatica. Non è tanto il dolore che mi colpisce ma lo shock per una reazione così intensa. Sento che non mi sarà facile alzarmi. Ma devo trovare una soluzione e farlo in fretta. Provo a concentrarmi sul ginocchio destro e a chiedergli di muoversi piano piano verso l’esterno. Tac. Dolore. Vorrei cercare di alzarmi in piedi ma non riesco nemmeno a muovere un muscolo. Adesso è subentrata anche la paura del dolore, di fare quel movimento sbagliato che mi precipiterebbe di nuovo verso gli aghi. Verso le punte delle frecce. Prima di precipitare sul letto, dopo il primo colpo, ho avuto il modo di accendere la luce e adesso, quanto meno, la camera è illuminata e riesco a vedere cosa ho intorno. In questo momento, l’unica cosa di cui ho bisogno è la maniglia dell’armadio: mi servirà come sostegno per provare a tirarmi su. Chiudo gli occhi e provo a dare un nuovo segnale al ginocchio destro, stavolta però cambiando leggermente la posizione della schiena. Il ginocchio risponde e riesco quanto meno a metterlo sullo scendiletto rosso che ho a pochi centimetri. Adesso non c’è più il pavimento freddo sotto di me e riesco anche a muovermi un pochino di più. Forse, dico forse, il peggio è passato e adesso riuscirò a stare in piedi. Alzo piano la testa e fisso la maniglia dell’armadio. Alzo il braccio sinistro e lo uso come leva per appoggiarmi al comodino e tirarmi su. Uno, due, tre, faccio forza sul braccio sinistro, stringo i denti e nonostante il dolore riesco ad afferrare la maniglia e a tirarmi su. Mi appoggio al grande armadio e mi tremano le gambe. Mi tremano e stavolta la paura ha un ruolo di primo piano. Ho paura di una scossa di dolore e adesso il letto, a sessanta centimetri da me, sembra così lontano che se mi ci buttassi rischierei di non riuscire ad aggrapparmici.  Non posso perdere tempo, devo approfittare del fatto che il dolore è meno intenso e andare verso la porta. Devo fare la pipì prima che sia troppo tardi. Non riesco a stare dritto e mi limito a trascinare i piedi per terra. Se non avessi il pigiama pesante e i calzini già ai piedi, ora sarei morto congelato. In poco più di un minuto sono alla porta della camera e i tre metri che avrò a mala pena percorso mi sembrano una impresa alla iron man. Apro la porta e mi avvio lungo il corridoio verso la porta del bagno. Adesso il corpo risponde meglio e i passi riescono ad essere leggermente più rapidi. Entro in bagno e con un’altra fitta di dolore riesco ad alzare la tavoletta e liberarmi dell’urina prima che sia troppo tardi. Rimango appoggiato al muro ancora per qualche secondo, dopo aver tirato l’acqua, perché ho bisogno di riposarmi mentalmente. 

Adesso dovrò affrontare il viaggio di ritorno e sento le gambe che potrebbero cedere da un momento all’altro. Mi guardo allo specchio e mi riconosco. Almeno, penso, non sono diventato uno scarafaggio. Trattengo quasi il fiato per concentrami sui piccoli passi che devo fare prima di tornare sul letto, poi mi lascio cadere in ginocchio e mi appoggio con il corpo sul materasso. Il dolore non sembra passare e adesso mi pongo un altro obiettivo: arrivare al comò e prendere l’aspirina. Resto ancora qualche secondo con gli occhi chiusi e intanto parlo con me stesso. Non cerco più di darmi forza, voglio cambiare registro e credere che sicuramente ce la farò, che il peggio è passato. Così, intanto che ricarico le energie mentali, cerco di apprezzare la situazione e immagino che adesso avrò un po’ di materiale privato per scrivere anche un racconto sui disabili. Disabile. Oddio, è questo che sono in questo momento? Devo mettere la maglietta del pigiama dentro i pantaloni perché adesso il freddo lo comincio a sentire per davvero. La camera è gelida, lo è sempre stata e chissà quanto può influire questo con il fatto che ciclicamente questa schiena si blocchi? Basta domande, è tempo di muoversi ancora. Ho deciso che agirò per piccoli obiettivi e adesso il mio obiettivo è ad un metro da me: il comò. L’unico modo che ho per alzarmi è quello che ho utilizzato prima: buttarmi sul pavimento e pregare che non urli. Lo faccio, ma stavolta mi aiuto con la mano destra appoggiata al comodino. Ah. Urlo. Male. Male sia fisico che psicologico. Non capisco perché ma sembra che il dolore, invece di diminuire, stia aumentando. Ancora una volta riesco a tirarmi su grazie alla maniglia dell’armadio e in comodi due minuti riesco a arrivare alla porta trascinando i piedi, appoggiarmi alla libreria rischiando di farmela cadere addosso e fiondarmi sul comò, dove apro il primo cassetto e trattenendo il fiato per il dolore, trovo l’aspirina. E’ un attimo, una frazione di secondo, ma il dolore inaspettatamente sale di tono e mi colpisce come un’ascia. Barcollo e l’unica cosa che riesco a fare e gettarmi ancora sul letto, sperando che la schiena cada nella posizione a lei gradita. Al letto nemmeno ci arrivo, mi accascio prima e toccato con le ginocchia per terra, eccomi di nuovo con il petto sul materasso. Devo assolutamente prendere questa aspirina, non ho altra scelta se voglio uscire da questa situazione. Poi ho bisogno di capire se migliorerò, perché sono in ritardo e in teoria tra un po’ dovrei andare a lavoro. Eccomi di nuovo con gli occhi chiusi, di nuovo a tirarmi su con la forza delle braccia e ad avvicinarmi alla porta. 

Il nuovo obiettivo, la nuova piccola missione di crescita, si chiama bicchiere d’acqua e la cucina è solo nella stanza affianco. In cinque minuti conto di farcela. Arrivo alla porta e sono pronto a fare il primo passo per uscire. Tac. Altra fitta alla schiena, ma stavolta corre giù e arriva anche alle gambe, che nel frattempo si sono fatte pesanti per la fatica. Non reggo. Mi arrendo e il dolore mi costringe a mettermi in ginocchio e poi ancora carponi, piegato dalla fitta e adesso, davvero preoccupato. Passa Alessia, che è pronta per uscire e per andare in Accademia. Mi vede ed io le chiedo un bicchiere d’acqua. In cucina non ci arriverò mai. Alessia mi porta l’acqua ed io la ringrazio dicendo che non è niente e che è tutto normale. Adesso, dopo l’aspirina, in dieci minuti mi riprenderò. Rimango fermo immobile, sul pavimento freddo e ho giusto la forza per gettare via il bicchiere che resta li a pochi centimetri da me. Adesso ho paura. Non so quale sarà l’effetto dell’aspirina ma sento che non cambierà molto. Non è come le altre volte. Non c’è niente di sopportabile in queste fitte, niente di normale nel non potersi nemmeno muovere, niente di giusto nel dover trovare una posizione così scomoda, nemmeno per star bene, solo per soffrire di meno. Adesso so che la mia missione cambia obiettivo. Devo tornare al comodino e prendere il cellulare. Devo avvertire che non andrò al lavoro. Ma adesso alzarsi in piedi è diventato impossibile. Fisicamente comincio anche ad essere stanco: le braccia tremano, le ginocchia sono fredde e le gambe indolenzite. Deve essere almeno un’ora che sono sveglio e il dolore sta crescendo. Riesco a mettermi carponi e a quattro zampe mi avvicino piano al letto. Il pavimento non è sporchissimo ma certo potrei passare l’aspirapolvere un po’ più spesso. Comunque, il mio pigiama e il mio trascinarmi, contribuisce quanto meno a pulire un po’ la stanza. Almeno sono sicuro che se dovessi morire qui, chi mi troverà cadavere vedrà una stanza con un bel pavimento. Arrivo al comodino e afferro il cellulare. Scrivo al mio capo che oggi non andrò e poi, esausto mi riappoggio al letto, sempre con le ginocchia sullo scendiletto. Almeno non gelo. Sento dei passi nel corridoio e riconosco l’incedere di Sergio. Lo chiamo e gli chiedo di entrare. Mi vede e la scena che si trova davanti deve per lo meno meravigliarlo: un uomo in pigiama, inginocchiato ai piedi di un letto, con la schiena arcuata e le braccia distese sul materasso. Il tutto, nella cornice di una camera piena di calzini messi ad asciugare nei punti più improbabili. Gli spiego subito la situazione e gli chiedo aiuto: ho bisogno di un antidolorifico o qualcosa di simile che mi salvi. E soprattutto, ho bisogno che me lo porti lui perché io faccio fatica anche solo a respirare. Prendo l’Oki di Sergio e adesso ho la sensazione che qualche cosa si possa sbloccare. Sergio sembra divertito ma è sincero quando mi chiede se può fare qualche cosa. Gli dico che può andare a lavoro tranquillo e che al massimo rimarrò così tutto il giorno. Sappiamo entrambi che sto scherzando, ma non me la sento di riderci troppo. Adesso in casa ci sono io e Valentina, ma Valentina dorme e non ho intenzione di svegliarla se non per casi estremi. Continuo a pensare per piccoli obiettivi e a valutare secondo dopo secondo se il mio fisico reagisce meglio. Negativo. Intanto fuori sento piovere con insistenza e un forte vento scuote le serrande. 

Chiamo mio padre. Non posso fare altro. Quanto meno devo avvertirlo che sto male e che ci sono grosse possibilità che debba venirmi a recuperare. Gli dico che può prendersi ancora un po’ di tempo e che voglio capire se passa. Ma che mi chiamasse tra qualche minuto così lo aggiorno. Abita a pochi chilometri quindi so che potrà essere qui in breve tempo, comunque, lo stesso lasso di tempo in cui io sarò in grado di alzarmi e andare ad aprirgli il portone. Tre metri davanti a me. Ho perso la concezione del tempo ma ben presto mi rendo conto con terrore che sento uno stimolo. Devo andare in bagno. Non è ancora urgente ma devo farla prima che sia troppo tardi. Ecco il mio nuovo obiettivo: tornare in bagno. Mi sposto di nuovo verso il comodino, di nuovo mi tiro su con la maniglia dell’armadio e di nuovo verso la porta, trascinando i piedi. Adesso però, sembra che il dolore si stia placando. I passi sono meno lenti e soprattutto, riesco ad appoggiare un po’ più i talloni senza sentire fitte. Penso a cosa significhi, per gli anziani, camminare sempre così piano e doversi appoggiare ad un bastone. Penso a cosa vuol dire fare le scale in queste condizioni e a quanto sia importante andare al bagno appena si sente lo stimolo. Se no si rischia di non arrivare in tempo. Piano piano sono a metà del corridoio, sono fiero di me perché sento che la schiena reagisce meglio, sono pronto a portare a termine l’impresa senza intoppi, quando all’improvviso: crack. La fitta. E subito dopo la scossa alle gambe. Stavolta però sono stanco io e sono stanche loro, così trattengo a stento l’urlo di dolore e mi lascio cadere per terra, aiutato dal muro. Non basta. Questo mio dolore non mi vuole in ginocchio, mi vuole prostrato ai suoi piedi. Mi piego, come un musulmano sul suo tappetino quando prega verso La Mecca. La testa si appoggia al muro e gli occhi sono chiusi, a concentrarmi sul male e a limitare il più possibile i rumori. Adesso sono nei guai. Sono distrutto, questa fitta mi ha squassato e sono esattamente a metà strada tra il bagno e il letto della camera. A mali estremi sceglierò il bagno ma adesso devo riposare un momento. Sono esausto. Nel corridoio c’è un divanetto e capisco che può essere la mia unica salvezza adesso. C’è una corrente fretta che non mi spiego da dove possa venire visto che le finestre sono chiuse, eppure sento una lieve brezza lavorarmi i fianchi e farmi pensare a quanto sia bella l’estate e i camini accesi. Il male sembra passato e adesso ho la forza per mettermi a gattonare verso il divano. Non so come riesca ad issarmici sopra ma ci riesco e riesco ad assumere una posizione nella quale il dolore svanisce. Miracolo. Ma so che non durerà e soprattutto so, per esperienza, che quando ho le fitte, se riesco a trovare una posizione in cui fa meno male, quando poi mi rimuovo le fitte aumentano di forza e intensità. Quasi volessero vendicarsi che non le hai considerate per qualche minuto. Suona il cellulare e capisco di aver fatto una sciocchezza a non essermelo portato dietro. Chiudo gli occhi e lo lascio squillare. So che è mio padre e l’unica cosa che mi dispiace in questo momento è che possa preoccuparsi che io non risponda. Sono bloccato. Non posso muovermi perché so che impazzirei di dolore. Fisso il poster di New York appeso al muro e penso che a me New York non interessa. Potrei anche andarci in vacanza, perché no, ma ci sono mille altri posti che vorrei vedere prima di andare a New York. Sento dei rumori ma è senza dubbio il vento che sbatte sulle finestre. Non sono sicuro di volere che Valentina si alzi e mi veda così. Non per altro ma sono disteso su un divano in una posizione da scemo, sono in pigiama e secondo me puzzo anche. Devo avere la faccia sconvolta, devo essere piuttosto sporco e soprattutto devo fare pipi. Forse è meglio che mi faccia coraggio e che vada. Opto per la camera. Posso resistere allo stimolo e devo assolutamente dire a mio padre di venire a prendermi. Sorprendentemente riesco a gettarmi sul tappeto ai piedi del divano senza soffrire troppo. Mi appoggio al tavolinetto Ikea nero, al fianco, e in ginocchio entro nella camera. Mi sento come ad un pellegrinaggio alla Madonna di Loreto, solo che invece dei petali di rosa, ai miei piedi ci sono capelli e polvere. Arrivo al comodino e chiamo. Mio padre sarà qui tra un quarto d’ora, devo solo riprendermi ancora una volta dalla fatica e pensare a come fare ad aprirgli la porta di casa senza restarci secco. 

Nel frattempo però, devo trovare un obiettivo, altrimenti impazzisco e a stare fermo troppo tempo nello stesso punto, rischio di bloccarmi ancora. Ho freddo, quindi voglio una felpa. L’armadio è proprio dietro di me, mi aggrappo alla solita amica maniglia e apro. Scelgo una felpa celeste e non riuscendo a prenderla dalla stampella perché troppo in alto per la mia schiena, devo tirarla e farmela cadere addosso. Chiudo l’anta e rimango in piedi. Se mi piego è la fine. Devo avvicinarmi alla porta d’ingresso e aspettare che mio padre mi chiami. Altrimenti rischio di metterci una vita ad aprire se dovessi ributtarmi sul materasso. Mi avvicino alla porta della stanza e di nuovo fitta. Di nuovo in ginocchio e poi prostrato. La chiamata di mio padre arriva come una benedizione, mi dice che ha trovato il portone aperto e adesso sta salendo al primo piano del palazzo per bussare alla porta. Mi precipito alla porta e gattonando, in un minuto ci arrivo. Riesco ad allungare il braccio e ad aprire. Ma fuori, a parte il vento freddo del pianerottolo, non c’è nessuno. Non può essere, l’unica soluzione è che ha sbagliato palazzo. Lo richiamo e infatti capisco che è entrato nel portone a fianco. Due minuti e finalmente si palesa all’ingresso. Io lo accolgo carponi. Da li non mi sono più mosso. Anche lui soffre di mal di schiena quindi non c’è bisogno di presentazioni. Sa cosa provo e non si meraviglia di nulla. Mi aiuta ad alzarmi in piedi e adesso riesco a stare dritto. Dritto con una inclinazione della schiena del 20%. Ora inizia il difficile. Devo cambiarmi e devo andare a casa. Per farlo, devo sfidare il diluvio ed entrare in una macchina. Solo l’idea di dovermi piegare per entrare in auto e poi sedermi, mi fa gelare il sangue. Mio padre mi aspetta in piedi ed io, passo passo, mi avvio verso il bagno. Sembra che il corpo ora risponda meglio e l’Oki sta facendo effetto perché mi permette di fare movimenti che prima mi avrebbero fatto accasciare a terra. Entro nel bagno e tutti i passi avanti fatti nei tre metri prima, svaniscono. La schiena freme, la pipi impazza ed io non riesco nemmeno ad immaginare come potrò alzare la tavoletta. Infatti non lo faccio. Mi giro verso la doccia e la faccio li. Come un bambino. Come un perfetto maleducato. Come un ubriaco. Come tutti almeno una volta nella vita. Le gambe mi tremano ma sento di avere la forza per sorreggermi in piedi. A questo punto cadere e dover chiedere aiuto sarebbe umiliante. Tiro lo sciacquone per coprire il rumore e allungo la mano per afferrare il doccino. Apro l’acqua e la faccio scorrere nella doccia per lavar via urina e odore. Apro il mio bagnoschiuma e lo verso nel piatto, finché l’odore scompare e la doccia non profuma di buono. Tiro ancora lo sciacquone e apro la porta. La prima parte della missione è compiuta. Le gambe tremano ancora ma ho la forza necessaria per andare in camera. E’ escluso che io riesca fisicamente a piegarmi per cambiare i pantaloni ma almeno riesco a mettermi una maglietta pulita e a tenermi la felpa. Mio padre mi aiuta a mettere le scarpe da ginnastica e gli chiedo di portare anche due libri. A casa morirei di noia altrimenti. 

Passo passo arrivo alla porta e all’ascensore. Scendiamo e mio padre scende prima di me. Io faccio un passo e mi blocco. La schiena. Un piede e nell’ascensore e l’altro fuori. Mi devo appoggiare un attimo perché la fitta mi ha bloccato. Non devo correre. Non devo credere che il peggio sia passato. Se oso troppo precipito. Se non mi fossi fermato sarei stato costretto a gettarmi a terra come prima in camera e in corridoio. Mio padre mi avrebbe potuto aiutare si, ma il dolore sarebbe passato solo in una posizione: quella del prostrato. Sono penitente mio Dio. Salva la mia anima e magari prima salva il mio corpo. Mi riprendo, usciamo dal portone e un vento freddo ci investe. Mio padre mi dice di aspettare e va verso la macchina per avvicinarla a retromarcia. Nel parchetto sotto i palazzi c’è un tizio con il cane e una donna sta rientrando con una busta della spesa. Potrei essere un barbone in cerca di un riparo o un tossico in cerca di qualche soldo. Io probabilmente mi vedrei così. Me ne sto li, sotto una tettoia, appoggiato ad una colonna, a fissare il vuoto e a sentire il vento ondeggiare i pantaloni del pigiama, come fosse una bandiera che garrisse. Non so perché ma mi immagino a Genova, su una nave, pronto a salpare e con lo sguardo rivolto verso il mare. Il vento e la brezza marina a tagliarmi il volto e poi la città dietro di me. Forse la vedrò per l’ultima volta. Sono un marinaio o un capitano, non importa. Quel che conta è che non potrei mai fare questo lavoro. Al primo freddo rimarrei con la schiena bloccata e mi butterebbero in mare. So che entrare in macchina sarà un’impresa e penserò a tutte le volte che da piccolo vedevo mia nonna, con le sue gambe bianche e gonfie, salire nella macchina di papà e farlo lentamente, con movimenti impacciati e lamentandosi. Io non capivo come ci si potesse metterci così tanto a salire in una macchina. Oggi lo so. So che sarà una lunga giornata e una notte ancor più lunga, che mi preoccuperò perché mancherò a lavoro e poi dovrò recuperare, che non potrò andare in palestra, che andare in bagno sarà un problema. Ma più di tutto, so che potrebbe ricapitare in qualsiasi altro momento, in qualsiasi altro posto e potrei non avere la fortuna di avere qualcuno che mi porti l’Oki o mi venga a prendere e portare a casa. Forse un giorno scriverò un racconto su un marinaio, per adesso, va bene questo su un disabile e sui dolori dell’ex giovane Marco.

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