La felicità

Io vorrei cercare di farvi capire, anzi, vorrei cercare di spiegarvi, quello che intendo per felicità. Esistono vari livelli di felicità e l’uomo, grazie alle parole e alle figure retoriche, ha da sempre provato a raffigurare la felicità e a definirne una scala di intensità. Ad esempio, se qualcuno dice che è felice come un bambino la vigilia di Natale, be, puoi immaginare che il suo livello di felicità sia decisamente alto e anzi, ci sia in lui anche quel misto di attesa e mistero che rendono la felicità ancora più intensa. Voglio subito fermarmi e dirvi che questo mio ragionamento prende come base un uomo dell’Occidente di oggi, quindi non cominciamo a dire che a Natale in Africa i bambini sono tristi esattamente come tutti gli altri giorni, perché è senz’altro vero, ma non è quello di cui vorrei parlare adesso. Dicevamo della scala di intensità della felicità. Un altro esempio potrebbe essere: sono felice come se avessi vinto 40 mila euro al GrattaeVinci. Ecco, anche questa sarebbe una bella felicità, per altro senza complicazioni, perché se uno vincesse che so, 200 mila euro, si ritroverebbe anche con il dubbio su come spenderli, quasi si angoscerebbe mentre con 40 mila euro, sei solo incredibilmente felice perché la tua vita non cambia dal giorno alla notte ma ti puoi togliere qualche sfizio e sollevarti dalla condizione di morto di fame che ti appartiene da zero generazioni (ovvero la tua, figlio del contratto a progetto e degli stipendi da soglia di povertà).

Gli esempi sulla felicità potrebbero essere infiniti e passare dall’addentare il supplì più buono del mondo, all’andare a scuola impreparati per il compito in classe di matematica e scoprire che la professoressa si è rotta 35 ossa andando a sciare ad Ovindoli. Ma la felicità di cui voglio rendervi partecipi oggi è diversa, è forse la felicità al livello più umile che ci possa essere ma è una felicità pura e limpida come acqua di sorgente: sono felice come quando vai in trasferta a vedere la tua squadra e quella vince. Anche qui è doveroso fare delle precisazioni e restringere il campo dei soggetti chiamati in causa: non stiamo parlando della tua squadra corazzata che va a giocare in casa dell’Atletico Vongolari Uniti e vince a mani basse, no, qui parliamo della tua squadra di poche pretese che va in casa della prima in classifica e si porta via la vittoria. Credetemi, è tutta un’altra cosa. Ecco, si dia il caso che ieri la mia povera squadra di basket, mia nel senso di tifoso, abbia vinto in casa della capolista e mi abbia regalato finalmente una bella serata, dopo una decina di trasferte di schiaffi (sportivi), prese per il culo (reali) e rabbia repressa (male). Alcuni di voi capiranno bene quello che sto scrivendo e si identificheranno in ogni singola riga, altri mi snobberanno e mi relegheranno nella categoria dei cretini che corrono dietro ad una palla (tifosamente parlando), non mi importa, perché la vita è fatta di piccole e grandi gioie ed io, ho deciso da tempo che vincere in trasferta, è una di quelle rare gioie che nessuno potrà togliermi.

Si dice che spesso l’attesa di una felicità sia l’essenza stessa della felicità. Non è sbagliato ma non è questo il caso in cui la frase è applicabile. Andare in trasferta per seguire la tua squadra è bello ma è un terno al Lotto: non sai mai come andrà a finire. Potresti tornare a casa felicissimo o deluso e purtroppo, questo è lo sport, la maggior parte delle volte è la delusione a prevalere. Che la trasferta sia di un centinaio di chilometri o di migliaia, che tu sia da solo con la tua macchinina o in pullman con altre persone, non cambia, gli ingredienti sono gli stessi: l’autogrill e il caffè della speranza, l’arrivo e la sciarpa stretta al collo (anche con 35 gradi), l’ingresso, nuovi odori, i cori, gli insulti, le mani nei capelli, la voce che finisce presto, l’afa, l’aria condizionata sulla testa, i time out chiamati troppo tardi, gli arbitri che fischiano solo i falli per la squadra di casa, il cellulare per leggere cosa stanno facendo le altre squadre, il vecchio dalla tribuna che si alza e ti manda a fare in culo nell’incomprensibile dialetto locale, la tua panchina dalla quale si alza il giocatore che speri cambi il corso della gara, la puzza di sudore maschio, venti secondi alla fine palla in mano agli avversari, il ferro, la sirena, la vittoria, l’abbraccio, le mani nei capelli di nuovo, recupera il giacchetto, torna alla macchina.

L’attesa della felicità è essa stessa la felicità, ma solo quando la tua squadra vince in trasferta. Come posso spiegarlo a chi non sa? A chi non comprende? Come si fa a spiegare che tu sei felice, tra l’altro, non per una tua vittoria personale sul campo ma per quella di altre persone che hanno vinto al posto tuo. C’ho pensato a lungo e credo che sia impossibile spiegarlo e forse va bene così. E’ come se un fumatore dovesse spiegare a chi non fuma perché lo fa. Cosa prova. Chi non fuma, considera il fumatore un cretino che è consapevole di farsi male ma chi fuma se ne frega e continua a farlo perché ne ha bisogno. Ecco, io non ho veramente bisogno che la mia squadra vinca in trasferta per essere felice, ma quando accade lo sono. E lo sono terribilmente. Non c’entrava molto l’esempio della sigaretta ma accontentatevi. Andate da un vostro amico che segue un qualsiasi sport, anche che lo giochi perché no e chiedetegli cosa si provi a vincere fuori casa. Gli si illumineranno gli occhi. E’ come chiedere ad un padre di parlare della propria figlia: gli occhi si riempiono di gioia ed orgoglio, all’istante. Vincere è sempre bello ma farlo in casa, su un terreno che conosci, in mezzo a gente che ti incita, tra mura amiche, non da’ lo stesso effetto che vincere fuori, tra i fischi di paura della tribuna, in angoli di campo che non conosci, tra spalti vecchi e logori, pestati da altre centinaia di tifoserie che negli anni si sono avvicendate e hanno portato, ognuna come te, il loro carico di tifo e di speranza. Il ritorno a casa poi, dopo la vittoria, è l’essenza stessa della gioia.

Ieri ad esempio, l’autogrill di Caserta Sud sembrava Disneyland. Tutto era bello, tutto era sfavillante, perché visto camminando un metro sopra la terra, il metro della felicità. Quel supplì poi, era buono come una torta nuziale, al matrimonio tra me e la mia squadra, un matrimonio pieno di frustrazioni e litigate ma un matrimonio con qualcuno di cui non puoi visceralmente fare a meno. Il ritorno a casa, sull’autostrada, è come una cavalcata nel deserto, rapinatori di banca che fuggono verso il nascondiglio con due punti nel sacco e con il ghigno di soddisfazione. Mi piace pensare che, in una vita ordinaria di giorni quasi sempre uguali (non in senso negativo, sia ben chiaro), ci siano piccole gioie che colorano le nostre esistenze e che sono solo nostre, non per forza uguali per tutti. È come decorare un albero di Natale con le palline: ognuno sceglie quella che preferisce ed io, per essere felice, scelgo di seguire la squadra in trasferta e stringere le mani in blasfema preghiera per chiedere la vittoria al Dio del basket. So di per certo che però, il Dio del basket non ascolta solo me ma tutti gli altri tifosi, così che per accontentare tutti, la prossima vittoria chissà come e quando arriverà. Ma non importa perché so che il gioco vale la candela e che per dieci sconfitte, la prima vittoria ripaga tutte le delusioni passate.

Mi piace pensare che qualcuno di voi capirà, che altri ci proveranno e che altri mi considereranno superficiale. Va bene ma provateci voi allora a spiegare cos’è la felicità. Anche se solo per oggi, anche se solo per un minuto, anche se ci sono cose molto più serie, avanti, chiedimi se sono felice.

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