giovedì 3 ottobre 2013

Se la vita fosse una partita di tennis, io non c'avrei capito nulla. Sottotitolo: allora la vita, forse, è una partita di tennis.


Tra me e il gioco del tennis non c’è mai stato amore. Anzi, direi che il termine amore è anche eccessivo, considerando che tra me e il tennis, non ci sono mai stati proprio rapporti. Non ho mai giocato a tennis né credo di essere mai entrato in un campo. Non ho mai assistito ad un match in televisione; figuriamoci dal vivo. Conosco Federer, Nadal, Djokovic si, ma solo per sentito dire. Voi potete anche dirmi che Federer è la classe fatta atleta, che il maiorchino è un portento e che Djokovic è il numero uno, ma io non potrò mai darvi ragione perché semplicemente, non conosco nemmeno una singola regola di questo sport. Poi un giorno, un mio amico mi riempie l’e-reader di libri e casualmente mi ci mette anche "Open": l’autobiografia di Andre Agassi. Mi dice che lo devo leggere assolutamente. E’ troppo divertente. Ok penso, forse a tempo perso lo farò.
Poi, quel tempo perso, è arrivato, una mattina che dovevo fare una lunga fila all’ospedale. Ho preso in mano l’e-reader e ho pigiato sul faccione pelato di Andre. Ho letto 400 pagine in una settimana ma solo perché mi costringevo a smettere per godermelo a pieno (credo sia giusto specificare che la settimana non l'ho passata in fila all'ospedale però). Open è effettivamente divertente, come divertente, è stata la vita di Agassi, il cui papà, un pugile iraniano emigrato negli USA, ha messo in mano la racchetta al figlio all’età di quattro anni e l’ha costretto a giocare. Era convinto che sarebbe diventato un campione, anzi, semplicemente il figlio doveva essere un campione. Non c’erano altre opzioni. Agassi ripercorre la sua infanzia trascorsa nel polveroso campo da tennis costruito dietro casa, le lunghe ore passate ad allenarsi e poi la scuola, a centinaia di chilometri da casa, chiuso dentro un’accademia in cui la mattina faceva finta di studiare ed il pomeriggio, sfidava la crema dei giovani tennisti americani. Un vita di successi, costella da piccoli grandi racconti del quotidiano: matrimoni, aneddoti, paure, match vinti all’ultimo tiro, corse sotto il sole, trofei scaraventati per terra e parrucchini per nascondere i pochi capelli rimasti.



Ma quello che colpisce di più del romanzo (così voglio definirlo) è la sensazione di sincerità che pervade le pagine. Non è un’autobiografia celebrativa, tutt’altro, sembra quasi una parabola da Vangelo: la storia di un uomo che ha sudato per ottenere quel che ha avuto e che ha saputo rialzarsi quando la sua personalità ribelle ed autodistruttiva lo abbatteva. Va detto, in tutta onestà, che il libro non l’ha scritto proprio proprio proprio lui. L’ha scritto tale Moehringer, un premietto Pulitzer che si è preso la briga di farsi lunghe chiacchierate con Agassi e poi buttagli giù un mattone di libro. Ma mai mattone fu a così alta digeribilità. Agassi lo ringrazia pubblicamente alla fine del libro. Sarebbe curioso sapere come si sono divisi i guadagni.
Che dire. Se un obiettivo questo libro l’ha centrato è che non ho potuto fare a meno di andare su youtube e rivedermi gli incontri di Agassi, così ben descritti tra le righe della biografia. Sapere cosa pensava realmente durante quel colpo particolare, mi ha reso non solo ancora più simpatico il personaggio ma in fondo, forse, anche il tennis. Il che è senza dubbio la cosa più incredibile che potessi immaginare. Alla luce di questa mia inaspettata passione per uno sport, sulla base di un libro letto, tendenzialmente, credo eviterò di leggere la biografia di Carla Fracci.