Tra me e il gioco del tennis non c’è mai stato amore. Anzi,
direi che il termine amore è anche eccessivo, considerando che tra me e il
tennis, non ci sono mai stati proprio rapporti. Non ho mai giocato a tennis né
credo di essere mai entrato in un campo. Non ho mai assistito ad un match in
televisione; figuriamoci dal vivo. Conosco Federer, Nadal, Djokovic si, ma solo
per sentito dire. Voi potete anche dirmi che Federer è la classe fatta atleta,
che il maiorchino è un portento e che Djokovic è il numero uno, ma io non potrò
mai darvi ragione perché semplicemente, non conosco nemmeno una singola regola
di questo sport. Poi un giorno, un mio amico mi riempie l’e-reader di libri e casualmente
mi ci mette anche "Open": l’autobiografia di Andre Agassi. Mi dice che lo devo
leggere assolutamente. E’ troppo divertente. Ok penso, forse a tempo perso lo
farò.
Poi, quel tempo perso, è arrivato, una mattina che dovevo fare una
lunga fila all’ospedale. Ho preso in mano l’e-reader e ho pigiato sul faccione
pelato di Andre. Ho letto 400 pagine in una settimana ma solo perché mi
costringevo a smettere per godermelo a pieno (credo sia giusto specificare che la settimana non l'ho passata in fila all'ospedale però). Open è effettivamente divertente,
come divertente, è stata la vita di Agassi, il cui papà, un pugile iraniano
emigrato negli USA, ha messo in mano la racchetta al figlio all’età di quattro
anni e l’ha costretto a giocare. Era convinto che sarebbe diventato un
campione, anzi, semplicemente il figlio doveva essere un campione. Non c’erano
altre opzioni. Agassi ripercorre la sua infanzia trascorsa nel polveroso campo
da tennis costruito dietro casa, le lunghe ore passate ad allenarsi e poi la
scuola, a centinaia di chilometri da casa, chiuso dentro un’accademia in cui la
mattina faceva finta di studiare ed il pomeriggio, sfidava la crema dei giovani
tennisti americani. Un vita di successi, costella da piccoli grandi racconti del quotidiano:
matrimoni, aneddoti, paure, match vinti all’ultimo tiro, corse sotto il sole,
trofei scaraventati per terra e parrucchini per nascondere i pochi capelli
rimasti.
Ma quello che colpisce di più del romanzo (così voglio definirlo) è la
sensazione di sincerità che pervade le pagine. Non è un’autobiografia
celebrativa, tutt’altro, sembra quasi una parabola da Vangelo: la storia di un
uomo che ha sudato per ottenere quel che ha avuto e che ha saputo rialzarsi quando
la sua personalità ribelle ed autodistruttiva lo abbatteva. Va detto, in tutta
onestà, che il libro non l’ha scritto proprio proprio proprio lui. L’ha scritto tale Moehringer,
un premietto Pulitzer che si è preso la briga di farsi lunghe chiacchierate con
Agassi e poi buttagli giù un mattone di libro. Ma mai mattone fu a così alta digeribilità.
Agassi lo ringrazia pubblicamente alla fine del libro. Sarebbe curioso sapere come si sono divisi i guadagni.
Che dire. Se un obiettivo questo libro l’ha centrato è che non ho potuto fare a
meno di andare su youtube e rivedermi gli incontri di Agassi, così ben descritti
tra le righe della biografia. Sapere cosa pensava realmente durante quel colpo particolare,
mi ha reso non solo ancora più simpatico il personaggio ma in fondo, forse,
anche il tennis. Il che è senza dubbio la cosa più incredibile che potessi
immaginare. Alla luce di questa mia inaspettata passione per uno sport, sulla base di un libro letto, tendenzialmente, credo eviterò di leggere la
biografia di Carla Fracci.