mercoledì 21 maggio 2014

It's raining man! Thank you Giove!

Adriano non era come la maggior parte dei romani dell’epoca: bisex. Adriano era proprio gay. Anzi, era quel tipo di gay che con le donne non ci va nemmeno troppo d’accordo, soprattutto con la moglie, che era stato costretto a sposare per esigenze di facciata ma dalla quale non ebbe né figli né felicità coniugale. D’altronde, Adriano aveva già il suo bel da fare per il mondo, non poteva mica occuparsi della moglie o farsi venire turbe mentali sul perché, quando lei era a Roma lui era a Tivoli o perché, quando lui usciva di casa a comprare le sigarette o a pacificare Gerusalemme, poi rientrava sempre dopo qualche anno, e non chiamava mai a casa.
Quando divenne imperatore, a quarant’anni, decise finalmente che era arrivato il momento di rilassarsi e godersi i piaceri che il suo ruolo offriva. Voleva fondare una città? La fondava. Voleva che la cultura greca si espandesse per l’impero? Ed ecco aprire scuole greche a gogo. Voleva fuggire dal traffico e dal rumore di una Roma che superava il milione di abitanti? Ecco Villa Adriana, a Tivoli, con il cielo stellato e mille servi tutti per se. 
Il mio regno per un cavallo, diceva Riccardo III d’Inghilterra tramite la penna di Shakespeare; un maschietto per il mio regno, diceva Adriano, che si invaghì perdutamente del turco Antinoo, splendido quindicenne, le cui statue oggi adornano centinaia di musei in tutto il mondo. Antinoo, lo schiavo che divenne il preferito dell’imperatore e che ebbe il mondo allora conosciuto ai suoi piedi, finché un giorno il Nilo non lo portò via, affogato o suicida, non si sa, quando aveva appena vent’anni. 

Cammini per Villa Adriana, oggi, e provi ad immaginare come potesse essere un tempo. Impossibile, perché millenni di storia ne hanno cancellato il cuore, lasciando solo qualche contorno sfocato. Ma se si alzano gli occhi al cielo, se si guarda verso l’orizzonte, le montagne che circondano la Villa son rimaste le stesse, gli stessi boschi, gli stessi uccelli, gli stessi fruscii leggeri, notturni, quando nemmeno il rumore delle macchine riesce a disturbare il sacro silenzio di questi viali di terra e leggenda. Un’ora e mezza di cavallo distanziavano il Palatino da Tivoli, oggi con dieci minuti di rapida autostrada, il sentiero si trasforma in asfalto e la stalla per cavalli stanchi in casello. Tutto sembra perduto, tutto sembra lontano e così impossibile da rivivere. L’idea che Roma fosse non una città ma un ideale, un sogno, non mattoni di case ma un corpo unico di uomo, un simbolo per cui combattere e morire. 

Non ha molto senso questo post, lo ammetto, sono giorni che cerco di scrivere qualcosa, ma poi disfo e cancello tutto. Non c’è un motivo per il quale dovreste leggere “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar se non che è un libro che va letto, come se fosse un passaggio obbligato nella vita di ognuno, soprattutto se nato e cresciuto in questa nostra Urbe. Immaginate le piccole frasi di recensioni che si leggono dietro i libri quando si compra un bestseller: fantastico, unico, da brividi, e giù nomi noti di note riviste o giornali di tutto il mondo. Ecco, se io dovessi recensire questo libro e scrivere due righe dietro la copertina, tanto per invogliare a leggerlo, direi: “Se siete analfabeti e qualcuno vi sta leggendo queste righe, sappiate che l’unico motivo per cui dovreste imparare a leggere, ce lo ha il vostro amico tra le mani”.