Il 23 ottobre del 1956 è passato alla storia per essere stato il giorno in cui scoppiò la breve rivoluzione ungherese; rivoluzione che gli ungheresi un po’ fecero contro i loro compaesani, un po’ contro i sovietici. In quel tempo l’Ungheria era governata (con le cattive più che con le buone) da un governo comunista filo sovietico e la gente non è che se la passasse benissimo, soprattutto perché la nazione era reduce anche da una sanguinosa guerra mondiale, in cui era successo quello che era successo e dopo la quale, a distanza di una decina di anni, non è che si vivesse nel benessere come si poteva sperare. Fatto sta che verso le 15:00 di questo 23 ottobre, qualche abitante di Budapest, stanco di sentirsi represso dai propri politici, dai russi e dal destino, si riunì in una piazza di Pest e da lì si riverso’ in protesta per le strade, raccogliendo man mano consensi ma soprattutto raccogliendo sassi: per spaccare vetrine, demolire una enorme statua di Stalin e distruggere tutto quello che poteva anche vagamente sembrare sovietico.
E’ in quel giorno, come in quelli precedenti, che si ambienta il romanzo che ho letto “Sotto il culo della rana, in fondo a una miniera di carbone” di Tibor Fischer. Il libro narra delle avventure di Pataki e Gyuri, due amici tirati su durante la guerra mondiale, adolescenti tra difficoltà del post e quasi adulti in una Budapest isolata dal mondo e preda della polizia del partito, che tutto vedeva e tutti puniva (a casaccio e senza colpe). I poveri protagonisti ci provano in tutti i modi a vivere una vita normale: chi gioca a basket, chi esce con le ragazze, chi sogna di fuggire oltre confine, chi cerca in tutti i modi di evitare il servizio militare. Ma la realtà che li circonda è più forte e più amara di qualsiasi ambizione, anche quella di essere semplicemente liberi di scegliere il proprio destino. A Fischer faccio i complimenti per l’ironia e per alcune battute niente male anche se a volte, l’ordine dei capitoli non è chiaro: prima si racconta il passato, poi il futuro, poi un po’ meno passato, poi il presente e poi ancora il passato passato. Alcuni capitoli scorrono via piacevoli, in altri si fa fatica a capire di chi si sta parlando; se i protagonisti siano sempre Pataki e Gyuri o si parli del padre di uno, del nonno dell'altro, dello zio del cognato del cugino di un altro ancora. Comunque nel complesso, il libro è carino, si legge con piacere e si impara qualcosa sulla storia che non fa mai male.
Forse vi starete chiedendo il senso di questo titolo: sembra che sia un modo di dire
ungherese quando si vuol fare capire che ci si trova davvero in una brutta situazione, forse nella più brutta delle situazioni. Voglio dire, chi di noi sarebbe felice di trovarsi in una ridente miniera di carbone, oltre tutto sotto il sedere di una simpatica rana umidosa e scivolosa? Il titolo stesso è la vetrina di quello che sarà poi il romanzo: pervaso da un umorismo tagliente ma oggettivo, perfetto per raccontare un paese in cui la retorica comunista parlava di grandi progressi e speranze avverate ma dove la vita reale e quotidiana era invece ben diversa. Secondo me, il vero obiettivo del libro (che poi era l'esordio letterario di Ficher, quindi nessuno nasce imparato se proprio non vi piacerà), è quello di sdrammatizzare un evento e un periodo terribile del suo paese. Sdrammatizzare e forse ricordare quel periodo per quello che era: surreale. E quando quello che ci è intorno è surreale, quando tutto è una tragicommedia, quando ogni diritto aquisito diventa un peccato mortale, allora è giusto vivere la vita come viene, emozionarsi per piccole conquiste, inventarsi una squadra di basket per sfuggire al lavoro di fabbrica. Tutto è concesso, anche stappare una bottiglia di champagne, conservata per anni, il giorno della morte di Stalin. Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest.