Per chi come me è
pigro, poco ispirato e soprattutto arido di pazienza e disciplina, il
modo migliore per scrivere un buon libro è: non scrivere alcun
libro. Oppure scriverlo a rate, magari trasformando le rate in
semplici raccontini, per poi metterli insieme e spacciarli per libro.
Ma vale? O è considerato barare? A quanto pare non è peccato: le librerie sono
piene di “raccolte di racconti”, magari di un autore famoso che
ha già scritto qualcosa ed è stato convinto dall’editore a
pubblicare tutti i raccontini chiusi nel cassetto, che adesso possono
valere qualche migliaio di copie vendute. Metto le mani avanti: non
è che sia vietato pubblicare racconti, ma almeno avvertite. Almeno scrivete
sulla copertina che si tratta di racconti e non di un romanzo. Voi
direte: basterebbe leggere la quarta di copertina per scoprire
l’arcano! Ma io vi dico che sono pigro (anzi ve l’ho già detto
nelle prime righe) per cui voglio che la questione mi sia chiarita
subito, senza dovermi leggere ogni quarta di copertina della libreria.
Insomma,
avrete capito da questo mio borbottare che recentemente mi è
capitato di cercare un romanzo e di tornare a casa con una serie di
racconti. Volevo approfondire la letteratura sudamericana, in
particolare Luis Sepulveda, che avevo apprezzato nel sempre mitico
“La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare” , ma invece
di un bel librone mi sono ritrovato a leggere una ventina di
racconti di tre o quattro misere pagine ciascuno. Questa è una vera e
propria ingiustizia. Ok, ammetto che i racconti erano
piacevoli e che Sepulveda è molto bravo ad osservare le cose e a
riportarle con semplicità, ma vuoi mettere un bel romanzo invece che
tanti raccontelli non legati tra di loro? Se inizi a raccontarmi la vita di un immigrato italiano in Patagonia, dico io, continua, magari mi interessa anche, non ti fermare dopo tre pagine.
Forse sarebbe il caso che
la smettessi di parlar male delle raccolte e cominciassi a
raccogliere i miei di racconti. Certo non mi considero all’altezza
di Sepulveda ma almeno, vedendo i racconti uno sopra l’altro (o un
foglio excel dopo l’altro), potrei quasi credere di aver scritto
già una buona parte di un discreto libro. E se anche poi non fosse vero,
sarebbe almeno una piacevole illusione passeggera, come le rose del
deserto di Sepulveda, che fioriscono solo un’alba all’anno e
che muoiono subito, arse dal sole di mezzogiorno. E dopo questa chiusura poetica e romantica, scusate ma vado a scrivere un
racconto su un cactus che ho piantato in giardino a novembre e che
una notte di gelo invernale, ha strappato alla vita e all’affetto
dei cari. Questo post è dedicato a te, amico cactus.