giovedì 15 ottobre 2015

Io sperassimo che me la caverebbe.

Cosa vorresti fare da grande? E' una domanda che mi facevano spesso (tra l'altro fino a pochi anni fa) e alla quale ho sempre risposto in questo modo: o il camionista o il telecronista. Confesso di non aver mai fatto molto per diventare nessuno dei due. Il telecronista l'ho fatto una sola volta, per una radio locale, seguendo un'emozionante Città di Marino - Tor Bella Monaca (2 a 1 per i locali) ma il sogno non è mai stato coltivato a dovere, forse perché lavorare gratis alla fine, anche se hai 25 anni, tende a stancare. Per quanto riguarda il camionista invece, non sono mai nemmeno salito su un camion e ho quindi preferito far cadere quel sogno nel dimenticatoio (con buona pace degli amati autogrill ma con riconoscenza della schiena). Alla veneranda età di 30 anni quindi, mi sono ritrovato senza particolari sogni nel cassetto, se non quello di veder vincere qualche trofeo alla Virtus Roma, quello di visitare il Giappone o quello di farmi assumere in Alitalia e volare gratis per i 7 mari (e quindi realizzare anche quello del Giappone).


Poi ad un certo è arrivata la Rai, mamma Rai, a stuzzicare quel mio piccolo grande e nuovo sogno, di combinare qualcosa nella vita come scrittore. O di romanzi o di messaggi dei Baci Perugina, non ci formalizziamo. Mamma Rai ha bandito un concorso per entrare nel suo laboratorio di scrittura creativa e io l'ho sorprendentemente vinto. Non dico sorprendentemente perché non sappia scrivere (almeno non sbaglio i congiuntivi) ma perché ero convinto entrassero solo raccomandati. Più che altro è stata questa la sorpresa. Dopo queste inutili righe di preambolo, posso finalmente dichiarare il motivo per cui questo post è qui: sto per l'appunto, seguendo il suddetto corso. Al momento posso raccontare solo della mia prima volta, avendo vissuto quella, ma riesco già darvi qualche deliziosa anticipazione.


Il corso ha 2 docenti (uomo giovane, donna matura) e 80, dico 80, partecipanti. Quindi già il nome del corso mi suona di beffa: come puoi parlarmi di scrittura creativa in 80? Dimmi semplicemente che facciamo delle conferenze sulla scrittura e almeno io mi preparo ad essere uno dei tanti (per altro stavo anche in ultima fila, ma quello per deformazione professionale). In via Teulada non ero mai stato, figuriamoci oltre i cancelli Rai, eppure avevo come la sensazione che non avrei trovato grandi sale moderne né servizi da business school americana. Ma insomma, tra quello e una sala conferenze con moquette blu del 1992 e modernissimi schermi tv da 19 quintali ciascuno, credo che in una via di mezzo si potesse sperare. Il tema della prima lezione, della durata di ore 2 e mezzo circa (con mezz'ora di fila per farsi accreditare all'ingresso), è stato quello del punto di vista dello scrittore, o meglio, del punto di vista con cui lo scrittore vuole scrivere il romanzo e come far parlare il protagonista: se in prima o seconda persona. Vi anticipo nel pensiero e vi scrivo subito che se non avete capito nulla di quello che ho detto, è solo perché a mia volta non ho capito molto io, nel senso che ho capito più o meno quello che si è detto a lezione (o in conferenza, per meglio dire) ma non ho capito cosa si intende per punto di vista. Va bé, ci sono ancora 11 lunedì per entrare nel merito.


Detto questo, ho come al solito tirato fuori il peggio di me e sputato pesantemente nel piatto in cui mangio, denigrando tutto il denigrabile di questo corso. Voglio essere sincero invece e confessarvi che è tutta fuffa, tutta apparenza. Non me ne frega niente se siamo un milione di partecipanti, se dovrò seguire le lezioni in piedi, se non capirò il senso delle cose, se domani cascasse il mondo. Ricevere la mail di accettazione al corso è stata una delle gioie più grandi mai vissute e vivrò questa avventura cercando di cogliere tutto quello che potrò far mio. E come disse, in un grande film, un teppistello napoletano che scrisse un tema e lo portò a Paolo Villaggio prima che partisse in treno: Io speriamo che me la cavo.

domenica 4 ottobre 2015

Interroghiamo, Interroghiamo. Di Luzio! Ma porco cane.

Vi siete mai chiesti chi o cosa decida, se un autore debba finire nei libri di scuola? Nel senso, chi ha deciso che l'Alfieri debba avere 30 pagine dedicate sul libro di letteratura del quarto anno o che so, Verga ne debba avere 20 su quello del quinto? Perché Verga si, con i suoi pallosissimi e lentissimi romanzi e un Pinco Pallino sfigato no, anche se magari ha scritto decine di romanzi di alto umorismo e critica sociale? Forse, dico io, ci si basa semplicemente sul concetto di bello. D'altronde, penso, se leggi "la pioggia nel pineto" di D'Annunzio non puoi non pensare che sia un capolavoro e che quindi meriti di essere lì. Ma in altri casi, il bello potrebbe essere soggettivo, anzi, è la cosa più soggettiva in assoluto. 

Un'altra cosa che mi sono sempre chiesto è perché nel programma scolastico, almeno quello svolto da me dieci anni fa, fosse necessario stare due mesi a spaccarsi le palle leggendo Parini e Alfieri (si, l'Alfieri non lo reggo) e si dovesse fare velocemente il novecento, salvo fermarsi alla prima Guerra Mondiale, che tanto poi l'anno era finito. E' così che mi sono perso dei mostri sacri della scrittura, mostri talmente sacri che puoi essere soggettivo quanto ti pare, ma quelli restano mostri. Mi sono ad esempio perso Pavese, che nel mio caso ho scoperto alla tenera età di quasi 31 anni, ma solo perché ho voluto approfondire la cosa e leggere almeno un suo libro, forse il suo libro più famoso: La luna e i falò. Giusto per dovere di cronaca, io ho fatto il liceo scientifico in Viale Cesare Pavese a Roma. E nessuno, dico nessuno, ci ha mai spiegato chi fosse Pavese. 

Come spesso accade su questo blog, non vi parlerò del libro in sé, per altro una storia senza grandi colpi di scena, bensì vi parlerò di Cesare, piemontese, che visse una vita di grandi soddisfazioni letterarie ma non altrettanto amorose, tant'è che purtroppo, scelse di chiudere il sipario prima del tempo e fu lui stesso a tirare la tenda, come solo i più eroici (o folli) eroi classici facevano. Vi parlerò della sua scrittura, fresca e ordinata, senza pretese di voler per forza essere il migliore ma solo desideroso di raccontare, la storia e i profumi della sua terra e le storie e le pieghe dei suoi pensieri. La luna e i falò è un libro che meriterebbe di finire nelle antologie della letteratura (come per altro è), non perché Pavese sia un raccomandato né perché qualcuno abbia deciso così, ma semplicemente perché è un libro bello e che, confesso, a tratti commuove. Non commuove per ciò che racconta ma per come lo racconta. Quasi che dalle parole si svelasse l'essenza stessa di Pavese, il suo carattere e i suoi pensieri. Se anche voi come me, a scuola, aveste saltato Pavese, allora scopritelo da soli perché ne vale pena. Poi interrogatevi e datevi un bell'8. So soddisfazioni.