mercoledì 31 agosto 2016

Se questo non è il romanzo più bello mai scritto, poco ci manca.


Qualche anno fa (per motivi che non sto qui ad approfondire se no ci vorrebbero un paio di articoli in più) mi capitò di leggere l’Arte della Guerra di Sun Tzu. Ignoravo prima di allora che genere di libro fosse, ma lo vedevo costantemente presente nelle librerie, soprattutto nella sezione dedicata all’economia, al management e alla crescita di se stessi. Insomma, il reparto dove non leggerei nulla neanche a pagamento. Nonostante il mio ingiustificato snobismo, il libro è in realtà famosissimo perché è stato riciclato, nei millenni, da libro di strategia militare cinese, a libro di strategia per essere il migliore nella vita, negli affari o in tutto quello in cui si voglia eccellere. Scoprii inoltre, che una persona per me di alto profilo, addirittura teneva quel libro sul suo comodino, come ispirazione per il suo lavoro. E a quanto pare la stessa cosa facevano i grandi manager a livello mondiale. Accidenti! Allora mi sono chiesto, qual è il libro del mio comodino? Qual è il libro che posso e devo sfogliare ogni giorno, per avere ispirazione e risposte alle domande della vita?
Fino a qualche giorno fa pensavo potesse essere “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, ma mi sbagliavo. Il libro più bello mai scritto è senza dubbio “I Beati Paoli” di Luigi Natoli. Descrizione: il libro ha più di mille pagine ed è un romanzo a metà tra i Promessi Sposi e Beautiful. E come le soap opera, appunto, è avvincentissimo e ad ogni pagina può accadere (e accade) di tutto, tanto che le mille pagine sembrano volar via in un attimo e ce ne fossero altre mille, si potrebbe continuare a leggere senza indugi. La prima volta che sentii parlare di questo libro ero a Palermo, dove non a caso è ambientato, e la trama mi fu raccontata da un ragazzo che ci aveva addirittura scritto una tesi di laurea. Mi raccontò di questa antica setta leggendaria, che si era data come missione quella di punire le ingiustizie dei nobili e di consolare gli afflitti (spesso poveri contadini o umili artigiani). Mi raccontò della Palermo sotterranea dove essi si muovevano e dei vicoli che ancora oggi portano nomi di personaggi realmente esistiti ed inseriti nel romanzo. Mi disse anche che qualcuno accostava la leggenda di quella setta, alla nascita della mafia in Sicilia, anche se poi Leonardo Sciascia (voglio dire, mica l'ultimo scemo), disse esattamente il contrario, ovvero che la mafia millantò di avere origini dai Beati Paoli, per darsi un'aura positiva e un'origine nobile. Per chi come me ha avuto la fortuna di vedere Palermo e innamorarsene perdutamente, i Beati Paoli è il libro perfetto per immergersi nell’atmosfera ottocentesca della città. I Promessi Sposi? E chi sono? Son sicuro che se a scuola si facesse leggere i Beati Paoli, sarebbe un piacere farsi interrogare e anzi, si andrebbe avanti nei capitoli di spontanea volontà, senza accontentarsi di leggerne uno a settimana. Altro che addio ai monti sorgenti dall’acque.


Forse adesso vi starete chiedendo: ma che c’entra questo libro con il comodino e con gli insegnamenti sulla vita? Effettivamente nulla, a meno che uno non cerchi risposte alle grandi domande dell'umanità, scovandole tra carrozze, duelli di spada, uomini incappucciati e osterie. Però i Beati Paoli è un libro troppo appassionante e come non resistere alla voglia di tenerselo stretto e lasciarlo sul comodino in bella mostra. E poi sarabbe un vero peccato se non lo pubblicizzassi e non ve lo consigliassi con calore. Vi dico però che io il libro l’ho comprato a Palermo (lo ha ripubblicato Sellerio, Dio li benedica), quindi non so se lo vendono anche in altre città. Nel caso, se vi interessa, c’è anche un seguito, un romanzuccio, di altre mille pagine, intitolato “Coriolano della Floresta”. Non me lo voglio comprare su Amazon a prescindere, così ho una scusa per tornare a Palermo e prenderlo lì (alle bancarelle costa di meno e puzza anche un po’ di muffa, così aumenta il fascino e concilia il sonno quando lo lasci sul comodino). Con buona pace di Sun Tzu e del caro Manzoni. Sempre viva il pani ca meusa.

giovedì 4 agosto 2016

Ciao ha tuti è statto belo. Io andare a sciare in giardini vaticani.


Tanti anni fa, nella libreria di casa trovai “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway e me lo lessi. Se mi doveste chiedere di cosa parlasse non me lo ricordo, a parte ovviamente che c’era il mare e presumibilmente un vecchio. Quello che ricordo però è che mi piacque nel complesso e che ebbi un ricordo positivo di questo Hemingway che la scuola poi, mi insegnò essere uno dei più grandi della letteratura. A distanza di anni ho deciso di rimettere alla prova il buon Ernest e ho preso in mano “Addio alle armi”. Sinceramente avevo grande aspettative su questo libro: capirai un mostro sacro di Hemingway, oltretutto ambientato in Italia durante la Grande Guerra, era un mix perfetto per un romanzo da cui mi aspettavo fuochi d’artificio.


E invece? Invece non mi è piaciuto. Ecco, l’ho detto. E’ una bestemmia? Che ne so, che vi devo dire, non mi è piaciuto. Ho provato a leggermi qualche recensione, qualche critica di illustre professore, per capire se ci fosse qualcosa in questo libro che io non avessi colto. Qualcosa in effetti c’era: il tema della grande storia d’amore, il tema dell’antimilitarismo, la prosa asciutta di Hemingway che racconta le cose come sono. Si ok, ma nel complesso possiamo dire che brutto? Tra l’altro il protagonista della storia è lui stesso e i suoi ricordi sul fronte italiano. Lo posso dire? E’ proprio antipatico sto Hemingway ed è pure un mezzo traditore di una mezza patria. Sarò breve: Hemingway è un americano che decide da un giorno all’altro di andare a fare una gita nella Prima Guerra Mondiale. Per farlo, si arruola nell’esercito italiano come autista di ambulanze, vive l’esperienza del fronte e infine (non so se anche nella realtà) la tragica ritirata di Caporetto. Oggi lo definiremmo un “libro inchiesta”, come un grande reportage di guerra, scritto da un inviato al fronte, che ha combattuto fianco a fianco con gli altri soldati e che racconta quello che vede. Ma la verità, almeno secondo me, fu che l’Hemingway del libro non si fuse mai veramente con gli altri soldati. Lui era diverso, era americano, aveva soldi, ogni tanto se ne andava in licenza a Milano e frequentava belle donne. Vero è che venne ferito e si fece mesi in ospedale in convalescenza ma mai perse quella spavalderia. Come di chi sembra vivere un sogno e sa di potersi svegliare quando vuole ed uscire tranquillamente dal vortice, mentre gli altri ci affogheranno dentro.


Poi va bé, alzo le mani, magari questo libro è solo una piccola biografia super romanzata della sua vita e poi Ernest nella vita reale era un grande, ma io giudico il libro e il libro questo racconta. Racconta di un uomo che, ricercato dalla polizia perché scappato dall’esercito e disertore, se ne scappa in Svizzera di notte e trascorre l’inverno in una baita, mentre i suoi ex compagni muoiono sugli altopiani del confine. Ma alla fine quindi, devo giudicare l’opera in sé o l'esperienza di vita? Perché anche l’opera sinceramente, mi sembra si un romanzo piacevole ma niente di che. Caro Erny, sarò pure invidioso della tua vita e della tua gloria, questo lo ammetto, ma posso dire che il tuo tanto noto “Addio alle armi” non mi è piaciuto o rischio di essere fucilato? Al massimo mi rifugio in Vaticano. Amen.