venerdì 22 giugno 2018

Questo lo facevo anche io. Forse.


Ho letto il racconto più breve del mondo e mi è piaciuto. Volete sapere di cosa parlo? Ecco:

“Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí”

Che sostanzialmente vuol dire: “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”.

L’opera mastodontica è stata partorita da Augusto Monterroso, scrittore del Guatemala ed è considerata, a torto o a ragione (chi sono io per giudicarlo?) il racconto più breve del mondo. Ma può davvero essere considerato un racconto? Se ci pensate si perché in fondo, non solo la frase così com’è ha un senso ma lascia spazio anche a diverse interpretazioni che mettono in moto il cervello e che ti danno la sensazione di aver letto qualcosa di molto più lungo e articolato.

Qual è la vostra interpretazione della frase? Su internet ne girano due in particolare:

  • Il protagonista è sveglio e si trova accanto a un dinosauro. Per non vederlo più si addormenta ma quando si sveglia, il dinosauro è ancora lì;
  • Il protagonista è sveglio e non ci sono dinosauri. Si addormenta e sogna dinosauri. Quando si sveglia, il dinosauro del sogno è ancora lì.

Poi c’è la mia interpretazione, che è triste e strappalacrime, ma che vi scrivo:

  • Quando il protagonista si svegliò, il dinosauro (che in realtà è un tumore/malattia) è ancora lì (come se il protagonista avesse sognato di star bene e invece non è così).

Però voglio citare una quarta interpretazione, secondo me la più bella, che ha dato una persona che conosco:

  • E se il protagonista fosse il dinosauro stesso? Pensateci: “quando si svegliò (il dinosauro protagonista), il dinosauro (lui) era ancora lì. Potremmo leggerla anche così: quando il dinosauro si svegliò (stava sognando di stare alle Maldive), lui era ancora lì (purtroppo si è risvegliato nella sua umile casa di Marina di Ardea e ha rosicato).

Che poi dove sta scritto che più un racconto è lungo, meglio è? D’altronde viviamo in un mondo in cui Twitter ti costringe a esprimere concetti in pochi caratteri e prima che esistesse Whatsapp, con gli SMS dovevi essere super-mega-iper conciso, se non volevi spendere una fortuna. Quante volte andiamo in libreria e scegliamo un libro solo perché è enorme, supponendo che sarà bellissimo? Per carità, “Zivago” è lungo lungo lungo ed è figo figo figo ma non sempre lunghezza fa rima con bellezza. Adesso vi lascio perché il dinosauro mi ha appena telefonato: pare che ad Ardea stasera ci sia la sagra della tellina e vorrebbe che lo accompagnassi a farsi una mangiata.




 

domenica 3 giugno 2018

Cammina, cammina, cammina, cammina, cammina, cammina. Stop.


C’è chi prenderebbe la macchina anche per andare al bar sotto casa e chi a piedi, farebbe il giro del mondo. C’è chi prende sempre l’autostrada perché si fa prima e chi preferisce le stradine di campagna perché ogni volta si scopre qualcosa di nuovo. Poi ci sono io che sono una via di mezzo: abito in un posto dove devo per forza prendere la macchina per fare la spesa ma dove a piedi, potrei fare chilometri di spiaggia, tra case abusive e affascinanti alberi scheletrici piegati dal vento.
Poi c’è chi, come Paolo Rumiz, ha provato a farci capire che camminare è la cosa più bella del mondo e che il mondo, appunto, lo conosceremmo molto meglio se invece di vederlo sempre dal finestrino di una macchina, lo attraversassimo con uno zaino e con scarpe comode. Paolo Rumiz è un giornalista con la passione per la scoperta e per le passeggiate e si è messo in testa, a un certo punto, di farsi a piedi la Via Appia. Ma non la via Appia moderna bensì quella antica: la prima strada d’Europa, la Regina Viarium.

E l’ha fatto, mortacci sua (detto con simpatia). E’ partito da Roma, zona Porta Capena ed è arrivato a Brindisi, attraversando fossi, boschi, recinti, campi arsi dal sole, montagne, paesi, discariche, pur di arrivare alla fine della via e farsi un meritato bagno nell’Adriatico. Perché dovete assolutamente leggervi questo libro? I motivi sono molti, il primo che mi viene in mente però è che fa venire una voglia irrefrenabile di camminare. Voi ce l’avete mai una voglia irrefrenabile di camminare? Io sinceramente si, ma quasi mai riesco a sfogarla. Forse perché alla fine, non saprei dove andare di preciso. Cosa racconta in più questo libro? Racconta la storia di una via, la Via con l’iniziale maiuscola, ma non parla di come sia stata costruita bensì di come è conservata oggi, cioè male. Rumiz fa una scelta coraggiosa: vuole percorrere la via nel suo tratto originale e fino a Capua tutto sommato ci riesce. Poi arrivano le montagne: Benevento, la provincia di Avellino, le ultime curve prima di arrivare in Puglia, dove tutto è pianura e il caldo è cocente. Ed è proprio in Puglia che Rumiz si rende conto che l’Appia è più disastrata, anzi non esiste proprio più. Fa impressione ad un certo punto, il fatto che l’Appia antica non possa più essere percorsa perché finisce dentro l’Ilva di Taranto! 

Ma il libro non è solo questo: è anche un caleidoscopio di colori, di odori, di sapori. E’ la vita che pervade tutte le cittadine attraversate e le persone, spesso archeologi, che l’autore ha incontro e che gli hanno permesso di scoprire angoli nascosti, che spesso nemmeno chi ci abita di fronte conosce. Non avete idea di quanta voglia mi sia venuta di camminare e di mangiare e di ascoltare e di esplorare. Sarà perché Rumiz ti fa venire voglia o sarà soprattutto perché è appena iniziato giugno e l’estate bussa prepotentemente alle porte del cuore. Tutte le strade portano a Roma: torniamo a percorrerle a piedi, queste meravigliose strade.