Qualche anno fa mi capitò di vedere una foto in bianco e nero su un articolo che parlava dell’emigrazione in America agli inizi del novecento. Nella foto era raffigurata una famiglia appena sbarcata ad Ellis Island. La madre con in braccio la figlia più piccola e sulla destra il fratello maggiore che tiene per mano un’altra sorella. La cosa che mi colpì più di tutte, fu il colore delle mani e del volto della madre: nero. Ma non il nero mulatto di una bella abbronzatura di fine estate, bensì il nero di anni di lavoro sotto il sole, di terra, di sporco, di povertà. Lessi l’articolo e scoprii che quella famiglia era italiana. Non era specificato se fossero veneti, lucani, siciliani, napoletani o piemontesi. Erano semplicemente italiani. La foto fu scattata più o meno cento anni fa, ma poteva essere di cinquant’anni più vecchia o di venti più recente: il colore della pelle e le valigie sullo sfondo non sarebbero cambiate.
Guardai la foto e ripensai ai cinque anni del liceo. Ogni mattina il percorso dell’autobus ci portava a passare di fronte ad un grande campo nomadi, ed ogni mattina, immancabilmente, l’autobus a quella fermata si riempiva di rom: famiglie dalla pelle scura di sole, donne con foulard in testa e uomini dal sorriso dorato e dalla lingua incomprensibile. La foto della famiglia italiana non può parlare, ma l’americano medio che vide quei disperati sbarcare su quel molo le voci le sentì eccome ed ebbe forse la mia stessa sensazione del non capire una parola di quello che dicevano.
C’è stato un tempo in cui i rom sull’autobus, gli africani sulla spiaggia, i romeni sulle impalcature e gli indiani al benzinaio, eravamo noi. Noi, che oggi abbiamo rimosso quel passato o che al massimo, ce lo raccontiamo differente da come è stato realmente. I libri di scuola e i film storici ci parlano dell’emigrante ben accolto e dell’italiano brava gente. Ma noi non eravamo né ben voluti né tanto meno brava gente. Gli italiani, soprattutto quelli dalla Liguria in giù, erano considerati europei di serie B e addirittura, in alcuni tribunali del centro degli Stati Uniti, giudicati come neri e non come bianchi. Che non fosse però solo una questione di mero razzismo ma in parte i nostri bisnonni se la cercassero, lo dicono anche le statistiche sul tasso di criminalità e sugli arresti nei primi decenni del novecento negli States. Quasi la metà dei galeotti erano cittadini italiani, ben più della somma di tutte le altre etnie messe insieme (al pari solo dei russi). Ma quello degli USA è solo un esempio. La cattiva impressione che l’italiano faceva all’estero era presente in praticamente tutti i paesi dove l’emigrazione ci ha portato: Australia, Argentina, Svizzera, Francia. Se avete voglia di approfondire l’argomento vi suggerisco il libro di Gian Antonio Stella “L’Orda – Quando gli albanesi eravano noi” edito da Rizzoli, dove troverete tante tristi esempi di come il mondo ci vedeva (e spesso ancora ci vede) fino a qualche decennio fa e di come l’emigrato italiano, che oggi appare come ricco e felice tra un ranch australiano e un Columbus Day newyorkese, ieri fosse l’ultimo degli ultimi, un po’ più in alto dei neri e al pari dei cinesi.
Leggerete di come i bambini fossero fatti emigrare e sfruttati dagli stessi italiani, che in pratica facevano un caporalato sulla loro pelle. I maschi a spalare camini in Europa, le femmine a prostituirsi nei bordelli dell’Africa. Leggerete di come i giornali americani descrivevano la vita a Little Italy, di come gli anarchici italiani cercarono di cambiare il mondo e fecero scuola di terrorismo, di come in Svizzera ci fossero sale d’aspetto alla stazione solo per noi (e non per omaggiarci!). Scoprirete insomma quel che i libri di scuola non dicono e l’origine di tanti pregiudizi che il mondo ha verso di noi. Da secoli.
Un’ultima considerazione sulla storia e sulla ruota in cui tutto gira e tutto torna. Oggi, come ieri, stiamo tornado ad essere emigranti e lasciamo in massa questo paese alla ricerca di un futuro migliore. Oggi, più di ieri, però, l’italiano che parte non è quello povero e disgraziato di cento anni fa, ma il laureato che mette il suo potenziale al servizio di altri paesi, con buona pace e tanto orgoglio per chi resta qui: a combattere per entrare in una università scadente e ad aspettare la raccomandazione dello zio di terzo grado arciprete di campagna. In attesa di imbarcarci anche noi per l’America (stavolta in aereo) o nella speranza di veder cambiare le cose qui, intanto cerchiamo di scoprire come eravamo fino a ieri, ma davvero fino a ieri, quando mentre Patty Pravo cantava “La Bambola”, i nostri padri in Svizzera dovevano star zitti per non far capire di essere italiani.
Fantastico post DiLuzzzzzzzzz!
RispondiElimina