lunedì 2 giugno 2014

Capita anche a te, di pensare che al di là del mare.

L’ultima e unica volta che sono stato in Sardegna avevo sei anni. Ho tre ricordi sfocati: le mie gambe immerse in un freddo mare di maggio dopo una lunga passeggiata su una spiaggia di sabbia finissima, le curve strette e le discese ripide e una macchina con i sedili di pelo grigio e la nausea che non ti abbandona, e l’assoluta, perfetta ed unica bellezza di Tharros, che a distanza di 23 anni è ancora per me la cosa più affascinante ed emozionante mai vista. Non sono più tornato in Sardegna e sinceramente, non ho mai pensato davvero di tornarci. L’ho sempre vista come un posto da vacanze per ricchi; un posto in fondo già visto, anche se a pochi anni; al massimo un posto da vedere, si, ma più in là, dopo essermi fatto prima rapire dalle altre mille sfaccettature che colorano il mondo. 

Eppure, se solo sapessi davvero cosa si nasconde dentro la Sardegna, oltre le barche dei vip, oltre le leggende dei rapimenti, oltre l’immagine di un’isola che sembra un enorme rettangolo, di cui tutti conoscono il perimetro bagnato dal mare e pochi sanno cosa c’è nell’area, nel cuore. Se solo sapessi cosa si cela dietro la maschera che la televisione le dà, entrare in un mondo dove non si parla un dialetto, ma una lingua vera e propria, dove il rapporto con gli animali e la natura è come era secoli fa, dove le tradizioni, i riti e i misteri non hanno nulla a che invidiare al fascino che emana un’India induista o un’Africa di spiriti maligni. S’accabadora, nella cultura sarda, è colei che aiuta i morti a morire, o meglio, coloro che non sono altro più che pelle ed ossa, a fare l’ultimo passo verso la morte. Né più né meno un’eutanasia. Prima che il mondo sentisse il bisogno, attraverso dibattiti TV, di interrogarsi sul perché e sul per come di certe morti, l’uomo, nei secoli, ha trovato il modo di fare da sé, istituzionalizzando certi riti, rendendoli  palesi ed accettati da tutti, non come un peccato furtivo da nascondere, ma come una benedizione: per chi va e per chi resta. 

Michela Murgia, nel suo “Accabadora” racconta uno spaccato della Sardegna misteriosa, della Sardegna che nessuno conosce, e lo fa toccando con bravura e un pizzico di ironia, un tema che ai più, può sembrare pesante come una montagna. Quale modo migliore però, per parlare di un tema così, se non decantandolo, diluendolo in un romanzo, ambientato negli anni 50 del Novecento e per questo visto come lontano, meno pericoloso, meno reale. Immergiamoci in una Sardegna che parla di sé stessa attraverso cuccioli di cane murati vivi per maledire i confini di un terreno, negli occhi di un contadino che vede il mare per la prima volta nella sua vita e ne fugge terrorizzato, nei “fill’e anima” tolti alla loro famiglia e adottati da un’altra, nel vento caldo del sud che la notte accarezza l’erba leggera arsa dal sole del mezzogiorno estivo.

Immergiamoci in una storia scritta scegliendo una ad una le parole e componendole in un’armonia perfetta, a dar forma ad un libro tra i più belli e meglio scritti che io abbia mai letto, a comporre un romanzo su un’Isola che tutti conoscono e pochi sanno. Immergiamoci sapendo bene chi siamo mentre mettiamo la testa sotto l’acqua ma senza la certezza di rimanere gli stessi quando la tireremo fuori, quando avremo trovato davanti a noi, il motivo per cui ci siamo tuffati: la ricerca della verità, la ricerca di quello che eravamo e quello che, anche negandolo, sempre saremo. Solo un mare separa noi dalla Sardegna, solo un mare separa quello che eravamo, da quello che qui ci siamo dimenticati di essere: santi, diavoli, uomini.
 

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