A dicembre sono stato, come migliaia di migliaia di altre persone, alla Fiera "Più libri più liberi" a Roma Eur. Dico migliaia di persone perché il giorno in cui sono andato, ho fatto un'oretta di fila per entrare e mentre ero dentro, ho visto per ore gente accalcata all'ingresso, in attesa di raggiungermi. Vi meravigliate che all'improvviso le persone abbiano scoperto il piacere della lettura? Ma che! Erano tutti in fila per entrare nella Nuvola di Fuksas (il Roma Convention Center, come sembra si chiami realmente). Pensa te, e io che credevo che il mondo si fosse improvvisamente rovesciato. Tralasciando i commenti sull'inutilità del nuovo centro convegni (i cui lavori sono iniziati non so quanti anni fa) e sulla pochezza di questa tanto decantata nuvola, passiamo al motivo di questo articolo, ovvero Gesuino Némus.
E chi è Gesuino Némus? Sinceramente non lo sapevo nemmeno io, prima di
andare alla Fiera. Leggendo il programma della giornata, ho scoperto che c'era la presentazione del terzo libro di questo scrittore sardo, che all'esordio nel 2015, ha vinto il Premio Campiello ed é arrivato in finale al Bancarella. Tanto di cappello (me cojoni)! Quale occasione migliore allora per conoscere uno che ce l'ha fatta, uno che ha pubblicato il primo libro a quasi sessant'anni, uno che ti fa dire: c'è tempo per tutto, facciamo con calma (il mio motto da una vita). Gesuino, che in realtà di chiama Matteo Locci, quel giorno ha presentato il suo terzo romanzo ma io ho iniziato dalle origini, dal suo primo "La teologia del cinghiale". Iniziamo col dire che è un giallo, ovviamente ambientato in Sardegna e che se avessi deciso, all'improvviso, di smettere di leggere il libro a tre quarti, vi avrei detto che non mi era piaciuto. Perché? Perché Gesuino fa troppi sbalzi temporali: prima racconta il passato, poi passa alla vita presente (e intreccia storie di vari protagonisti), poi torna a quarant'anni prima, poi ad un certo punto inserisce se stesso e passa dal narratore onniscente alla descrizione in prima persona. Alla fine entra anche nella testa del lettore e lo catapulta nel romanzo: nel bar, nella piazza, nei boschi, come se fossimo lì, ad inseguire anche noi la verità su alcuni omicidi irrisolti. Insomma, un pò confusa questa parte: forse troppa carne sul fuoco e poca sostanza.
A proposito di fuoco e di carne: il filo conduttore del romanzo è il cibo. Mangiano tutti e mangiano di tutto. Vi assicuro che non c'era una volta che non leggessi il libro e non avessi poi una voglia irresistibile di mangiare maialino, di gustare seadas, di tracannare cannanau e sorseggiare mirto. Su questo Gesuino è un maestro: come ti fa venire fame lui, nessuno. A questo punto devo però dire che invece il finale merita, non tanto per la soluzione dell'enigma in sé ma come ci si arriva. La domanda che ci si fa continuamente è: che fine ha fatto un certo Matteo? E niente, non lo si scopre fino all'ultima riga dell'ultima pagina. Per questo posso scrivere che in una storia abbastanza sciapa (sempre per usare un termine culinario), il finale salato, salva tutto il piatto. Tra una pecora bollita e un sugo di cinghiale, alla fine il dilemma è risolto e sono pronto a scommettere che vi piacerà (il finale intendo, non solo il pranzo). Un voto al libro? Sei e mezzo. Un voto ai prodotti tipici della Sardegna? Dieci. Ajo' oste, portaci un altro litro.
(ovvero, tutto quello che avreste voluto chiedere sulla letteratura ma vi siete ben visti dal farlo)
lunedì 29 gennaio 2018
Attenzione: la lettura di questo libro provoca immediata voglia di andare a mangiare pesce a Cagliari e carne a Nuoro.
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Ubicazione:
08044 Jerzu OG, Italia
domenica 14 gennaio 2018
Un romanzo stranissimo dove c'è anche una bambina che dice al protagonista che è morto ma il protagonista non è morto ma forse alla fine il protagonista è morto (quanto meno spiritualmente). Oppure è proprio la società che è morta. Vai a capire.
Nella biblioteca di Spinaceto, tra le centinaia di romanzi di autori italiani, ci sono anche tutti i vincitori del Premio Strega. E' facile individuarli perché sono stati tutti ripubblicati dalla UTET e i libri si trovano in una bella versione con copertina rigida e colori diversi a seconda del decennio di uscita. Ne ho letti parecchi, proprio perché incuriosito dal fatto che si trattassero di Premio Strega e devo dire che difficilmente sono rimasto deluso (anche se non ho letto nulla pubblicato dopo il 2000). L'ultimo libro preso è stato "Le stelle fredde" di Guido Piovene, Premio Strega del 1970. Se devo dirvi subito si o no, ovvero se volete sapere a caldo qual è stata l'impressione, be', a malincuore dico "no". No, perché la storia è difficile da interpretare a meno che non si legga il pensiero dell'autore (però a fine libro, per non rovinarsi il gusto). Dico no perché spesso alcuni personaggi del romanzo non si capisce bene che scopo abbiano e in generale, cosa accidenti giri nella testa del protagonista, che parla parla parla per tutto il romanzo ma non è chiaro se sia psicopatico, malato o abbia semplicemente un male di vivere alla Montale.
Però insomma, se alle Stelle Fredde è stato assegnato sto Premio ci sarà anche un motivo. In fondo io non sono un critico e probabilemente non ho colto il sottile vero significato nascosto sotto le parole, che invece ha fatto innamorare chi lo ha votato. Lo ammetto candidamente: qualsiasi cosa ci sia dietro questo romanzo, non l'ho capita! O meglio, ho capito cosa ha scritto Piovene ma non ho capito il senso del romanzo: se sia una critica all'uomo, alla società, all'universo o a Dio. Non ho capito con chi ce l'ha sto Piovene! Però devo anche ammettere che qualche spunto interessante c'è.
Ora, senza raccontarvi troppo, vi dico che c'è una scena in cui Dostoevskij resuscita e sbuca fuori da un albero abbattuto. E poi Dostoevsij racconta cosa c'è dall'altra parte (sotto terra) e dice che tutti noi da morti non facciamo altro che camminare e camminare e siamo in un mondo che è simile a quello in Terra
ma un pò più giallo e ci sono quelli che camminano e basta e quelli che hanno fede in Dio e che camminano e in più fanno sapere a tutti che hanno fede in Dio. Solo che c'è un problema, cioè che queste anime (che non sono anime perché sono ancora mezzi corpi sbiaditi) ogni tanto evaporano e scompaiono e quindi gli stessi morti si ritrovano a farsi domande come quando erano vivi: muoriamo nel dubbio di sapere cosa ci sarà dopo e quando ci rendiamo conto che poi c'è effettivamente qualcosa, stiamo da capo a docidi perché anche nell'aldilà c'è una sorta di seconda morte che non si sa dove ci porti. Affascinante caro Piovene, alzo le mani e dico che è proprio una bella teoria.
Ma continuo a non capire se questo tuo libro sia un manifesto contro qualcosa o sia solo una storia e basta. E continuo a non capire come si possa dare un Premio Strega a un libro che secondo me, scusa se te lo scrivo Piove', il 99% delle persone che lo leggerà, non lo capirà.
Voi fatemi sapere. Vi auguro di essere quell'1%.
Però insomma, se alle Stelle Fredde è stato assegnato sto Premio ci sarà anche un motivo. In fondo io non sono un critico e probabilemente non ho colto il sottile vero significato nascosto sotto le parole, che invece ha fatto innamorare chi lo ha votato. Lo ammetto candidamente: qualsiasi cosa ci sia dietro questo romanzo, non l'ho capita! O meglio, ho capito cosa ha scritto Piovene ma non ho capito il senso del romanzo: se sia una critica all'uomo, alla società, all'universo o a Dio. Non ho capito con chi ce l'ha sto Piovene! Però devo anche ammettere che qualche spunto interessante c'è.
Ora, senza raccontarvi troppo, vi dico che c'è una scena in cui Dostoevskij resuscita e sbuca fuori da un albero abbattuto. E poi Dostoevsij racconta cosa c'è dall'altra parte (sotto terra) e dice che tutti noi da morti non facciamo altro che camminare e camminare e siamo in un mondo che è simile a quello in Terra
ma un pò più giallo e ci sono quelli che camminano e basta e quelli che hanno fede in Dio e che camminano e in più fanno sapere a tutti che hanno fede in Dio. Solo che c'è un problema, cioè che queste anime (che non sono anime perché sono ancora mezzi corpi sbiaditi) ogni tanto evaporano e scompaiono e quindi gli stessi morti si ritrovano a farsi domande come quando erano vivi: muoriamo nel dubbio di sapere cosa ci sarà dopo e quando ci rendiamo conto che poi c'è effettivamente qualcosa, stiamo da capo a docidi perché anche nell'aldilà c'è una sorta di seconda morte che non si sa dove ci porti. Affascinante caro Piovene, alzo le mani e dico che è proprio una bella teoria.
Voi fatemi sapere. Vi auguro di essere quell'1%.
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