lunedì 29 gennaio 2018

Attenzione: la lettura di questo libro provoca immediata voglia di andare a mangiare pesce a Cagliari e carne a Nuoro.

A dicembre sono stato, come migliaia di migliaia di altre persone, alla Fiera "Più libri più liberi" a Roma Eur. Dico migliaia di persone perché il giorno in cui sono andato, ho fatto un'oretta di fila per entrare e mentre ero dentro, ho visto per ore gente accalcata all'ingresso, in attesa di raggiungermi. Vi meravigliate che all'improvviso le persone abbiano scoperto il piacere della lettura? Ma che! Erano tutti in fila per entrare nella Nuvola di Fuksas (il Roma Convention Center, come sembra si chiami realmente). Pensa te, e io che credevo che il mondo si fosse improvvisamente rovesciato. Tralasciando i commenti sull'inutilità del nuovo centro convegni (i cui lavori sono iniziati non so quanti anni fa) e sulla pochezza di questa tanto decantata nuvola, passiamo al motivo di questo articolo, ovvero Gesuino Némus

E chi è Gesuino Némus? Sinceramente non lo sapevo nemmeno io, prima di
andare alla Fiera. Leggendo il programma della giornata, ho scoperto che c'era la presentazione del terzo libro di questo scrittore sardo, che all'esordio nel 2015, ha vinto il Premio Campiello ed é arrivato in finale al Bancarella. Tanto di cappello (me cojoni)! Quale occasione migliore allora per conoscere uno che ce l'ha fatta, uno che ha pubblicato il primo libro a quasi sessant'anni, uno che ti fa dire: c'è tempo per tutto, facciamo con calma (il mio motto da una vita). Gesuino, che in realtà di chiama Matteo Locci, quel giorno ha presentato il suo terzo romanzo ma io ho iniziato dalle origini, dal suo primo "La teologia del cinghiale". Iniziamo col dire che è un giallo, ovviamente ambientato in Sardegna e che se avessi deciso, all'improvviso, di smettere di leggere il libro a tre quarti, vi avrei detto che non mi era piaciuto. Perché? Perché Gesuino fa troppi sbalzi temporali: prima racconta il passato, poi passa alla vita presente (e intreccia storie di vari protagonisti), poi torna a quarant'anni prima, poi ad un certo punto inserisce se stesso e passa dal narratore onniscente alla descrizione in prima persona. Alla fine entra anche nella testa del lettore e lo catapulta nel romanzo: nel bar, nella piazza, nei boschi, come se fossimo lì, ad inseguire anche noi la verità su alcuni omicidi irrisolti. Insomma, un pò confusa questa parte: forse troppa carne sul fuoco e poca sostanza. 

A proposito di fuoco e di carne: il filo conduttore del romanzo è il cibo. Mangiano tutti e mangiano di tutto. Vi assicuro che non c'era una volta che non leggessi il libro e non avessi poi una voglia irresistibile di mangiare maialino, di gustare seadas, di tracannare cannanau e sorseggiare mirto. Su questo Gesuino è un maestro: come ti fa venire fame lui, nessuno. A questo punto devo però dire che invece il finale merita, non tanto per la soluzione dell'enigma in sé ma come ci si arriva. La domanda che ci si fa continuamente è: che fine ha fatto un certo Matteo? E niente, non lo si scopre fino all'ultima riga dell'ultima pagina. Per questo posso scrivere che in una storia abbastanza sciapa (sempre per usare un termine culinario), il finale salato, salva tutto il piatto. Tra una pecora bollita e un sugo di cinghiale, alla fine il dilemma è risolto e sono pronto a scommettere che vi piacerà (il finale intendo, non solo il pranzo). Un voto al libro? Sei e mezzo. Un voto ai prodotti tipici della Sardegna? Dieci. Ajo' oste, portaci un altro litro.

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