giovedì 3 gennaio 2019

Ci sono dei valori etici e morali che vanno oltre gli schieramenti politici. Tipo tifare contro il Chievo Verona.


Non è la prima volta che parlo di un libro di cui mai avrei pensato di scrivere. Non è la prima volta che dico: “Questo libro l’ho incrociato mille volte in libreria ma a pelle, non lo avrei mai letto”. E come spesso accade, eccomi qui a chiedere scusa al mondo intero per aver ignorato per anni un libro che andrebbe letto da tutti, soprattutto dai ragazzi dalle elementari in su. Il libro è “Il buio oltre la siepe” della scrittrice statunitense Harper Lee.

Non sto a raccontarvi delle circostante fortuite per cui l’ho preso tra le mani ma è bastato leggere poche pagine per appassionarmi e scoprire poi che quelle parole non stavano certamente colpendo solo me ma anche altri, visto che il libro ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa nel 1961. Ma perché questo libro non volevo proprio leggerlo? Perché parla di razzismo e di discriminazione. Non che io sia insensibile a questi temi, sia chiaro, ma visto che questo romanzo è davvero sempre tra le primissime file di ogni libreria, ero convinto che fosse una storia un po’ trita e ritrita e che le varie Feltrinelli, Mondadori ecc… me lo proponessero per non so quale cospirazione massonico/sinistroide/radicalchic/La Repubblichese.

E invece niente da dire! Nessun pericolo di ritrovarsi tra le mani l’opera di una Michela Murgia anni 60. Questa è roba forte. Scritto in prima persona, con gli occhi di una donna che racconta la sua vita da bambina, il romanzo è ambientato nell’Alabama degli anni 30, durante la grande depressione americana. Mentre al Nord il clima nei confronti dei neri sta cambiando, il Sud degli Stati Uniti resta ancorato al passato colonialista e il nero è visto sempre come inferiore al bianco. Scout, la protagonista, ha la sfortuna di perdere la madre da piccola ma la fortuna di avere un padre che si fa in quattro per lei e il fratello e che soprattutto le trasmette il valore del rispetto, decisamente in controtendenza ai loro conoscenti e vicini di casa. Atticus, il padre di Scout, fa l’avvocato e si ritroverà a difendere in tribunale un nero, accusato ingiustamente di aver aggredito una ragazza bianca. Ne verrà fuori un bellissimo spaccato dell’America di quasi novant’anni fa, con tanto di strane bibite zuccherate, strade polverose, feste di Halloween senza zucche, vicini di casa misteriosi e alcol, tanto tanto alcol.
 
Alla fine non c’è una morale vera e propria ma forse la morale non serve nemmeno. Basta leggere il romanzo per avere un senso di fastidio per le ingiustizie che capitano ai personaggi e per capire, senza che ci venga rivelato, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Io ve lo dico: se volete leggere un libro scorrevole e appassionante, “Il buio oltre la siepe” fa per voi ma soprattutto, io vi consiglio di regalarlo ai più giovani perché è un romanzo che non potranno fare a meno di divorare e che scommetto, alla fine gli piacerà.

sabato 15 dicembre 2018

E’ un po’ che non leggo ma posso spiegarvi…


Lo scorso mese mi sono accorto, per altro casualmente, di essermi abbonato ad Amazon Prime. Non era mia intenzione ma credo che sia accaduto perché una volta attivato il mese gratuito mi sono scordato di cancellare la carta di credito e quindi sono rimasto fregato. Lasciando da parte le maledizioni che ho mandato ad Amazon, ho deciso di collegare la mia smart Tv a internet (cosa che non avevo mai fatto prima) e capire cosa avesse da offrirmi Amazon demmerda. L’occhio mi è subito caduto sulle serie, in particolare su una che non sentivo nominare da un po’: Lost. Su Amazon tiodioesplodi, ci sono tutte e 6 le serie, il che mi ha stuzzicato non poco visto che non guardo mai serie Tv, figuriamoci se ne iniziassi una sapendo che è incompleta. Tutto questo nasce dal fatto, credo ormai lo abbiate intuito, che io Lost non lo avevo mai visto. Mai, nemmeno un episodio. Quale occasione migliore per recuperare il terreno perso e poter trovare un nuovo argomento di conversazione con gli amici, seppur con una dozzina di anni di ritardo. Per altro, e qui chiudo l’anteprima, in un episodio uno dei protagonisti gioca a tennis con la magliettina dell’Italia. Considerando che Lost è uscito negli USA nel 2004/2005, quella puntata è stata premonitrice della vittoria del Mondiale tedesco (che con il tennis non centra un cavolo ma va be). 
Con questo articolo volevo annunciare al mondo che ho appena finito di vedere le 25 puntate della prima serie e che ho deciso che brucerò le mie poche vacanze natalizie per vedermi le altre 6.269 puntate che mancano alla fine. Quali sono le prime considerazioni? Innanzi tutto che Lost è molto più simile a un Beautiful che a un Mister Robot, nel senso che sono talmente tante puntate che ne dovresti vedere due al giorno per arrivare alla fine e non esserti dimenticato l’inizio. Secondo: Lost è un pochino lento, diciamoci la verità, ma è sacrosanto! Come si possono girare milioni di episodi pensando di offrire colpi di scena continui? Per cui ci sono quelle puntate abbastanza inutili in cui speri solo che inquadrino quel gran pezzo di donna di Kate, che almeno ti rallegra l’animo e ti fa passare i 40 minuti di episodio. Che bello! Chi è che vuole parlare con me di Lost??? Si lo so che sono un pochino in ritardo e che voi non vi ricordate nulla ma fate finta di starmi ad ascoltare e annuite. Per esempio: qual è il vostro personaggio preferito? Il mio è quel pelatone adorabile di John Locke ma devo dire che anche quel coattone scontroso di Sawyer mi ha conquistato. Ora, conoscendo la mia solita fortuna dell’innamorarmi di personaggi che dopo pochi secondi muoiono, sono certo che nella prossima serie saranno entrambi impiccati a una palma o meglio ancora cucinati dalla lava di un vulcano segreto. 
Che altro aggiungere? Che forse avrei dovuto scrivere questo articolo dopo l'ultima puntata, quando avrei potuto davvero esprimere un parere finale su Lost, ma che posso farci? Può darsi che all’ultima puntata ci arrivi tra altri 12 anni e che nel frattempo mi sia scordato quello che ho visto finora. Dunque è meglio mettere tutto nero su bianco. A proposito di anni 2000, che dite, dopo Lost mi metto a vedere Grey's Anatomy o meglio tornare a leggere qualche libro?  


lunedì 15 ottobre 2018

Qui l'autore vuol farci riflettere sul fatto che Berlusconi ha governato per tutti gli anni della sua adolescenza. "Sua" dell'autore.


L’ultima volta che sono stato a un corso di scrittura creativa, sono capitato vicino a una signora di una sessantina d’anni. All’inizio non ci siamo parlati (a parte il “ciao ciao” di convenevoli) ma poi mi sono reso conto che avevamo una cosa in comune: il gusto. Quando gli altri partecipanti leggevano un racconto scritto sul momento, se una cosa non era piaciuta a me non piaceva a lei e viceversa, quello che a lei piaceva, risultava piacevole anche a me. Con questi presupposti la conversazione, nel proseguire della giornata, è stata più attiva finché lei non mi ha chiesto se avessi mai letto qualcosa di Paolo Di Paolo, confidandomi prima ancora che rispondessi, che era il marito di sua figlia (forse era il fidanzato, non ricordo bene). Io Paolo Di Paolo lo avevo sentito nominare ma non avevo mai letto nulla, anzi ero convinto fosse abbondantemente in là con l’età. Però facendomi due rapidi conti, il Di Paolo non poteva essere poi così anziano, a meno che la figlia della signora non avesse gusti particolari e non si fosse sposata uno più grande di lei. Paolo Di Paolo, ve lo svelo, è del 1983, quindi ha solo un anno più me.

Paolo Di Paolo è famoso e io no. Paolo Di Paolo scrive e io no. Paolo Di Paolo immagino viaggi per l’Italia per presentare i suoi libri e io al massimo viaggio per l’Italia per veder perdere la Virtus Roma. Ho deciso di leggere “Dove eravate tutti”, scegliendo il libro non per la copertina o per la trama ma semplicemente perché era in offerta al mercatino dell’usato. Cercando di annullare il mio senso di invidia nei confronti dell’autore (invidia ingiustificata visto che io non ci provo nemmeno a scrivere), mi sono immerso nel libricino. E porca miseria, Paolo Di Paolo scrive anche bene. Non solo, ha anche quella sottile ironia che mi piace molto. Lo dico subito, il libro non mi è rimasto nel cuore, anzi, parte bene ma delude un poco alla fine, ma quel che conta non è il racconto quanto la sensazione di aver letto il libro di uno con cui avrei potuto andare in classe insieme o a nuoto o a catechismo, o ovunque il destino ci avrebbe fatto incontrare. Siamo nati a pochi mesi di distanza, ergo, Di Paolo potrei essere io!

Rosicate a parte: bravo Paoletto. Bravo anche perché il libro che ho letto si basa secondo me su fatti di vita vissuta (almeno in parte) e quindi Paolé... hai praticamente pubblicato un libro limitandoti a scrivere una sorta di diario e invece di lasciarlo in un cassetto lo hai fatto uscire in libreria. Chapeau, anche se come detto, il tuo “Dove eravate tutti” parte bene ma poi si perde. Che vuol dire che si perde? Che secondo me potevi scrivere altre cinquanta pagine e sviluppare un po’ i temi che hai raccontato prima e invece sembra che a un certo punto ti sei stancato e hai detto “Va bene ok, il libro lo chiudiamo così e passiamo ad altro”. Le ultime venti pagine sembrano più un racconto alla Fabio Volo (non conosco i racconti di Fabio Volo ma me li voglio immaginare banali e per ventenni rincoglioniti). Comunque tanto di cappello, io sto qui a scrivere una recensioncina che leggeranno in due e tu sei ovunque sei, a goderti i tuoi libri stampati e immagino, anche qualche euro guadagnato. Zitto e muto Marco! Prendi e porta a casa e impara, che forse con un pizzico di impegno in più, anche le stronzate che scrivi su Facebook potrebbero diventare qualcosa. E sti cavoli se ne verrà fuori un libro alla Fabio Volo. 

giovedì 13 settembre 2018

Maledetto Dino Buzzati, come ti sei permesso di farmi piangere come un vitello?


Un giorno, forse in prima o seconda superiore, presi in mano “Il deserto dei Tartari”. Era un libro che stava nella libreria di mio padre da chissà quanti anni e io ero in un periodo in cui cominciavo a leggere quasi tutto quello che mi capitava sotto tiro. Quella volta mi capitò qualcosa che mi sconvolse. Quello non era un libro normale, era un romanzo di una tristezza infinita e leggerlo a 14 anni, quando il tuo umore passa in pochi minuti dall’euforico al depresso, fece si che quelle righe lasciassero segni indelebili sulla roccia dei miei ricordi. Per tanti anni ho sempre detto, dunque, che il mio libro preferito era “Il deserto dei Tartari” e tanto ne ero sicuro che anche avendolo letto una sola volta, vent’anni prima, l’idea non poteva essere cambiata. Oggi, a distanza di altre centinaia di libri letti, ho ripreso in mano “Il deserto dei Tartari”. Non vi nego, perché è mia intenzione farvi leggere questo libro, che alla fine ho pianto. Ok non vi aspettate una cosa eclatante tipo Cascata delle Marmore ma una lacrimuccia è spuntata.


Perché? Perché è davvero il libro più triste del mondo. Come ve lo racconto in poche righe? E’ la storia di Giovanni Drogo, soldato appena diplomatosi all’accademia, che ventenne, viene assegnato alla Fortezza Bastiani, al confine montuoso tra il suo Paese e un immaginario Stato del Nord. Oltre il confine, già in territorio nemico, c’è questo famoso deserto, detto dei Tartari perché un tempo ci scorazzavano queste tribù. Drogo alla sola prima vista della Fortezza prova l’irrefrenabile impulso di scappare via, addirittura congedarsi con disonore, piuttosto che passare un solo minuto in quel nulla, lontano dagli amici e da una qualsivoglia cantina per bere un bicchiere di vino.


Vado, resto, vado, resto, alla fine Drogo rimarrà nella Fortezza più di quanto non avrebbe pensato e poi STOP altrimenti vi racconto troppo. Ma Buzzati è un maestro perché in un romanzo di nemmeno duecento pagine, riesce a condensare una vita intera e a raccontare ogni stagione dell’anima, ogni emozione, ogni sentimento, come altri autori non sarebbero capaci di fare in mille pagine. Forse però, adesso che ci rifletto, “Il deserto dei Tartari” potrebbe non piacervi. In effetti è un pochino lento, introspettivo, angosciante, non è detto che faccia al caso vostro. Per me è il mio libro preferito e amen, non si discute, ma devo ammettere che a voi potrebbe non piacere e potreste smettere di leggerlo anche dopo poche righe. Dovete correre questo rischio però. Dovete leggerlo e provarci. Non cercate di finirlo in una sera o leggerlo velocemente per sapere cosa succede. Godetevelo come se stesse bevendo un fantastico vino che voleste gustare con calma. Leggete ogni singola parola, ogni virgola, perché Buzzati è un maestro proprio perché riesce a esprimere un concetto con esattamente le sillabe necessarie. Se vi piacerà, già saprete di aver trovato il libro che avete sempre cercato e mai nulla sarà come prima. Altro che questi stupidi articoletti su un blog.

giovedì 23 agosto 2018

Ero l'unico al mondo a non aver ancora letto questo libro. Vero? Vero??




Prima o poi doveva succedere: ho letto “I pilastri della terra”! Si si, lo so, lo avete letto anche voi e si, mi dispiace, avrei dovuto leggerlo già da una decina d’anni e non l’avevo ancora fatto. Ma che vi devo dire? Lo conoscono tutti ed è scritto da Ken Follett che praticamente è più famoso del Papa: no non fa per me, non riesco a leggere un libro così famoso. Troppo scontato. Ma in fondo è estate e sotto l’ombrellone non si possono mica leggere mattoni psico-metafisico-economico-impegnati. In spiaggia voglio andare con qualcosa di leggero e cosa c’è di meglio di un romanzetto di mille pagine? D’accordo, visto che siamo in vena di confessioni allora diciamolo: “I pilastri della terra” è bello. Ok concediamoglielo, un pochino più di bello: è molto bello. Che poi l’aggettivo “bello” è anche troppo generico, affermiamo allora che “I pilastri della terra” è appassionante. E’ coinvolgente. E’ emozionante. “I pilastri della terra” non è un libro: è un soap opera. Sembra una sceneggiatura per un filmone o meglio ancora per una serie, di quelle che su Netflix (che mi vanto di non avere) farebbero il tutto esaurito.

Ma che la scrivo a fare una recensione sui pilastri? Che vuoi scrivere? E’ praticamente perfetto! Tu apri il libro, leggi le prime dieci pagine e ti rendi conto che non potrai più lasciarlo. Anzi, meno male che sono mille pagine e quindi è impossibile leggerle tutte di un fiato, altrimenti ci si potrebbe chiudere in camera e finirlo in una notte. Caro Follett, che vuoi che ti dica? Hai pubblicato decine di libri ma ti sarebbe bastato solo questo per entrare nella leggenda. Però aspetta, una cosa te la voglio dire: mi piaci ancor di più perché non hai messo troppi personaggi. Nelle prime pagine, si incontrano subito una decina di persone che potrebbero essere tutte protagoniste e lì allora sei costretto a fermarti e studiarteli bene, altrimenti se poi si va avanti e questi personaggi si consolidano, rischi di perderti la loro evoluzione. Ma se di personaggi ce ne fossero venti o trenta, non sarebbe più un romanzo, diventerebbe la Bibbia e bisognerebbe istituire un corso di laurea solo per capirlo. Invece Follett, grazie al cielo, di personaggi ne porta avanti una decina e questo basta. Facciamo in tempo a conoscerli, a vederli crescere, a farceli stare simpatici o antipatici e a disperarci se poi muoiono o tradiscono le nostre aspettative (tranquilli, non vi dico chi muore).
Ripeto, sto allungando il brodo perché davvero mi vergogno a dire altro sul libro: come faccio a muovere anche solo una piccola critica se io di questo romanzo avrei scritto a mala pena la prima riga? Aspettate, non mi ricordo se vi ho detto di cosa parla il romanzo. Va bè ma tanto lo avete letto tutti, quindi ve lo ricordate no? No? Volete dire che non lo avete letto tutti tutti tutti?. Davvero?

Vergogna! Bestie di Satana, che il cielo vi maledica! Correte subito a comprarlo e divoratevelo perché di romanzi così ne leggerete tre o quattro nella vita, non di più. E no, a questo punto non vi dico nulla. Non vi dico di cosa parla, dove è ambientato, chi è simpatico e chi è antipatico. Scusali Ken, perdonali, non sanno quello che fanno. Bestie! Leggete subito “I pilastri della terra” e che Dio abbia pietà di voi.

martedì 21 agosto 2018

Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu. E basta.











Per la serie – finalmente per una volta non ci parli di libri ambientati in Sardegna – eccomi pronto a scrivervi di “Un anno sull’Altipiano”, di un certo Emilio Lussu, credo originario di Trento.



Essendo il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale (novembre 1918), non potrebbe esserci occasione migliore per parlare di un libro ambientato proprio durante questa guerra. Per l’esattezza tra il giugno del 1916 e il luglio del 1917. Per la cronaca, l’Italia non se la passava benissimo in quel momento: solo per dire, ad ottobre del 1917 ci sarebbe stata la famosa battaglia di Caporetto, con 13.000 morti, 30.000 ferite e 265.000 prigionieri, solo nel fronte italiano.


Il romanzo (che non è proprio un romanzo ma una sorta di diario scritto ad anni di distanza), racconta la vita di trincea dalla parte degli italiani, che sull’Altipiano di Asiago (e non solo), si fronteggiavano alle truppe dell’Impero Austroungarico. Nel testo, tutto è vero e crudo, niente è filtrato e la bravura di Lussu sta nel fatto di descrivere la tragedia della guerra e della morte, raccontando davvero tutto e riuscendo anche a far sorridere in qualche occasione. Tra una pagina e l’altra, si passa dalle ferite cruente, al furto di salumi, dai generali innamorati di se stessi, alle notti al gelo a bere alcol per riscaldarsi. Uno degli “aneddoti” che mi ha più colpito è stata la descrizione dello stato d’animo dei soldati, che dalle postazioni di montagna, osservavano la valle e in lontananza vedevano le città del Veneto sotto l’Altipiano. Loro erano rintanati in quei buchi scavati nella roccia mentre in quei paesi lontani, la vita scorreva come sempre, seppur nelle ristrettezze della guerra. Quei paesi, da lassù, sembravano così vicini che si poteva quasi toccarli con un dito. Chissà cosa stavano facendo in quel momento gli abitanti, loro che potevano uscire, cantare, amare, senza la paura di non vedere il sole del giorno dopo.

Che vi devo dire, battute per chiudere l’articolo con una risata non me ne vengono. Una riflessione però voglio farla: si parla tanto (nei libri e in TV) della Seconda Guerra Mondiale e del Fascismo, si racconta cosa sia accaduto e si spera che non accada più, giustamente. Ma la Seconda Guerra Mondiale è stata una guerra in cui l’Italia ha perso e perso male e del ventennio fascista, sono state certamente più le ombre che le luci. La Prima Guerra Mondiale invece no. E’ stata una vittoria, sofferta e "mutilata", ma una vittoria. E allora, invece di piangerci sempre un po’ addosso o pensare solo ad autoflagellarci per le nostre colpe (vere e presunte), ogni tanto potremmo guardare anche al famoso 15/18 e ricordarci che prima dell’8 settembre 1943, eravamo stati vincitori di qualcosa e che del passato si possono ricordare anche gli aspetti positivi, con un pizzico pizzico di orgoglio per la storia nazionale che non guasterebbe affatto.





venerdì 20 luglio 2018

Spengo la TV e non vi ascolto più.


Dave Eggers è un grande. E’ un grande per come scrive, intendo. Non so se leggerò tutti i suoi libri ma credo di si. Magari uno ogni due anni, con calma, per godermi questi suoi romanzi leggeri, che definirei da “sotto l’ombrellone”. Dave Eggers mi sta simpatico. Lo stimo ovviamente, come stimo chiunque sappia scrivere come fa lui. Dave Eggers mi fa sorridere eppure non lo conosco; non so nulla di lui come persona. Non so se sia democratico o repubblicano, se sia anarchico, se gli piaccia il nero o il bianco, il sale o il pepe, la Coca Cola o la Pepsi. La verità è che non me ne frega nulla di cosa pensi perché a me interessano i suoi romanzi. Potrei scoprire che la pensiamo in modo completamente opposto rispetto qualsiasi tema ma la cosa non mi scalfirebbe, perché a me interessa che sappia scrivere bene e che mi diverta: il compito che chiedo a un artista è questo. Eppure sembra che in queste ultime settimane in Italia, qualsiasi cosa si faccia di artistico, musicale, letterario, debba per forza schierarsi da una parte o dall’altra di una riga. Sembra che non si possa simpatizzare per un partito politico senza essere tacciati di razzismo e sembra che non si possa difendere un ideale senza essere accusati di buonismo. Ma forse non è un caso che molti scrittori o pittori vengano apprezzati solo dopo molti anni, quando il contesto sociale e politico è cambiato e non sono più letti o visti sotto la luce dei loro contemporanei.

Comunque se vi interessa, stavolta ho letto “Eroi della frontiera”, un romanzo che racconta la storia di Josie, una madre di famiglia che a un certo punto, prende i due figli piccoli e parte per un viaggio in solitaria in Alaska. Ovviamente dietro ci sono vari accadimenti che non sto qui a scrivervi però posso dire che rispetto agli altri libri di Eggers questo mi è piaciuto un po' meno. Sarà che quando un uomo scrive di una donna e vuole entrare nei suoi pensieri, non so mai quanto possano essere veri e aderenti alla realtà. Secondo me (ma non è detto che sbagli) un uomo dovrebbe raccontare di cosa passa per la mente di un uomo e viceversa, se volessi capire davvero cosa pensano le donne, dovrei leggere un romanzo scritto da una donna. Ma ripeto, magari mi sbaglio e la verità è che gli uomini analizzano meglio le donne e le donne conoscono più a fondo gli uomini di quanto io possa immaginare.


Un merito però voglio darlo a questo libro: è quasi impossibile capire come finirà. Quando ti rendi conto che mancano ormai dieci pagine, provi a capire cosa cavolo succederà a questa madre e a questi bambini ma non riesci a capirlo. Per quello che hai letto prima, potrebbero morire tutti, potrebbero vivere tutti felici e contenti, potrebbero tornare a casa o rimanere per sempre in Alaska, potrebbe accadere qualsiasi cosa forse anche un orso che irrompa nel loro camper e se li divori. Insomma, potrebbe accadere di tutto e quindi quelle ultime dieci pagine te le divori letteralmente (come un orso affamato) perché devi sapere come andrà a finire. Come finirà? Per saperlo, non resta che andare il libreria e scoprirlo. E non c’è bisogno di arrivare fino a Anchorage.