sabato 15 febbraio 2014

I just came to say: Rimbaud

Ormai lo avrete capito. Io nei miei articoli del blog non racconto mai la trama del libro. Al massimo, l’accenno. E comunque non entro mai nei particolari. Nel caso di “Nove gradi di libertà” di David Mitchell poi, il compito è reso ancora più facile dal fatto che non è un romanzo, ma una raccolta di nove piccole storie. E che volete, che vi racconti la trama di nove storie? L’idea di Mitchell è carina (anche se non è stato certamente il primo ad inventarla): nove storie, ognuna ambientata e vissuta in posti diversi da personaggi diversi, legate però tra loro da un particolare, un episodio, un personaggio, che in una storia può essere protagonista mentre in un’altra diventa solo comparsa di un minuto.

Sapete poi, che oltre a raccontare poco della trama, solitamente non faccio mai eccessive critiche, anche perché parlo solo libri che mi sono piaciuti, quindi cosa avrei da criticare? Eppure, nonostante nel complesso, quello di Mitchell sia un bel libro, devo dire che, (caso rarissimo visto che di solito è il contrario) ha il difetto di partire bene ma finire male, non come la commedia greca, ma nel senso che tre/quarti dei racconti sono molto belli e coinvolgenti, mentre gli ultimi si perdono un po’ e danno l’idea di ripetersi troppo e di sfiorare eccessivamente il surreale.

Ma lo ripeto (avrò usato troppe volte la parola “ripeto”?), qui lo dico e qui lo nego, “Nove gradi di libertà” è un libro che consiglio, perché anche se non sono un fan del genere (tanti racconti in un solo testo), non pesa il fatto di leggere venti pagine di un racconto e poi dover ricominciare con un altro, anzi, è curioso e stuzzicante andare a scoprire quando, nel racconto successivo, saranno citati eventi o personaggi di quello precedente che però, nel racconto suddetto, non avranno alcuna influenza e saranno come foglie portate dal vento, che restano qualche secondo sulla strada finché il vento se le riporta via. E poi, visto che siamo in tema di eventi casuali e scherzi del destino, in uno dei racconti (ambientato a Londra), il personaggio principale si chiama Marco e quindi può non essermi simpatico il caro Mitchell?

Per la cronaca Marco è un latin lover di donne mature (possibilmente sposate) che vive sopra un pub e di mestiere fa il ghost-writer, guadagnando abbastanza per sopravvivere tre settimane al mese e poi morire di fame l’ultima. E’ o non è il sogno di ogni aspirante scrittore maledetto del XXI secolo? Assenzio, vieni a me.

2 commenti:

  1. Ottimo. Mi ero perso il fatto che l'avessi letto.
    Sarebbe bello essere come Marco, cazzo!

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    1. Mi sono immedesimato subito nella devastazione morale del personaggio ahahah

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