mercoledì 19 marzo 2014

Vorrei essere te. Morte tra atroci sofferenze esclusa.

Quante volte vi sarà capitato di passeggiare in libreria e di notare un libro che vi rapisse, per la copertina o magari per il titolo. Tornare nella libreria, o in un’altra, una, due, tre volte, e ritrovare sempre lo stesso volume. Stavolta lo compro. No, facciamo la prossima. Gira che ti rigira il libro lo compri e nonostante sul tuo comodino ci sia una colonna di libri da leggere che aspetta pazientemente da mesi di essere domata, tu decidi che quello che comincerai stasera, il prescelto, sarà proprio quello che hai appena comprato, con buona pace di un “Il richiamo della foresta” che scalpita in cima alla colonna da mesi. Questo è stato per me “L’alternativa nomade” di Bruce Chatwin, copertina con foto da urlo (il protagonista in impermeabilone da barca a vela), titolo accattivante, editore tra i migliori e prime due righe della sovracoperta da leccarsi i baffi: “Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto , insopportabile dopo due?”. Ma l’alternativa nomade non è un libro, nemmeno una biografia, è una raccolta di lettere, redatte dallo scrittore Bruce Chatwin, nell’arco di una vita intera e indirizzate ai più svariati amici, nonché ad Elizabeth la moglie e ai genitori (sia di lui che di lei). Dalle prime letterine che mandava a casa dalla scuola (meno di dieci anni), fino alle ultime, dettate in punto di morte, quando l’HIV ne aveva ormai fiaccato il fisico (ma non lo spirito). 


Leggere le sue lettere, prima di leggere le sue opere, è come quando al liceo si studia la vita dei grandi autori, prima di leggerne le opere. Prendiamo Leopardi ad esempio: sappiamo della sua vita triste chiuso tra le mura di Recanati, poi delle sue fughe e poi dei suoi viaggi tra Roma e Napoli. A quel punto leggere le sue poesie da modo di capirle meglio perché si da un senso diverso alle parole sapendo cosa c’è dietro, non solo dal punto di vista dell’analisi delle metafore ma del periodo in cui sono state scritte e cosa stesse vivendo davvero in quel momento l’autore. E’ così che nelle lettere di Chatwin si vedono nascere pian piano le idee sui libri che poi scriverà nel corso degli anni, le sue speranze, i suoi progetti, gli incontri casuali che riporterà nelle opere, i commenti degli amici e la sua insoddisfazione o orgoglio per quel che ha prodotto. 

Non saprò mai se leggendo prima i suoi libri e poi questa raccolta, sarebbe stato il modo migliore per apprezzare ancor di più questo libro, ma so che leggendo questo, la voglia di comprare e leggere i libri restanti c’è eccome. Nell’attesa di approfondire i testi però, si rimane affascinati dalla vita dello scrittore, che finché il fisico glielo ha permesso ha viaggiato in mezzo mondo, non limitandosi solo a guardare ma osservando i luoghi e le persone, mischiandocisi, nel disperato e sempre pressante tentativo di conoscere gli altri per conoscere se stesso. Come si fa a non trovare terribilmente simpatico uno che ha passato la vita a viaggiare e scrivere libri? Uno che mille cose pensava e mille faceva, che sognava di avere una casa in ogni nazione, che odiava gli inverni della sua Inghilterra e sognava primavere nel Mediterraneo, escursioni sull’Himalaya e passeggiate nei silenzi della Patagonia? Tra le tante parole che compongono le centinaia di lettere riportate, c’è una frase che più tra tutte mi ha colpito e che spiega, forse, il motivo per cui una persona che ha viaggiato così tanto e visto così tante cose, in fondo ha scritto solo cinque libri: “Spero che il soggetto per il nuovo libro cominci a germinare, ma per ora al riguardo sento il vuoto totale. Con tutti questi libri improvvisati che girano, io non credo proprio in una scrittura che non sia necessaria”. 
Se mai mi iscrivessi a Lettere e Filosofia, un giorno, saprei già su chi fare la tesi.

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