giovedì 3 aprile 2014

La granita alla mandorla, con il pane al sesamo, è la morte sua

Prima di partire per un viaggio, qualunque viaggio, sarebbe sempre meglio informarsi su quello che si andrà a vedere. Non parlo però di posti, o chiese, o locali, parlo della gente, degli usi e costumi e modi di essere delle persone che abitano il posto che andremo a visitare. Il modo migliore per conoscere davvero un luogo, un popolo, prima ancora di vederlo, non è comprando una guida turistica, ma leggendo un libro che in quel posto sia ambientato. Così, prima di partire per Catania, ho deciso di andare in libreria e cercare un romanzo che mi raccontasse della Sicilia e mi facesse immergere in quello che di lì a pochi giorni avrei visto. Sicilia, Sicilia, Sicilia e subito, come un lampo, ho capito cosa avrei dovuto cercare: “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini. Vittorini non si studia a scuola, o meglio, io non l’ho studiato. La Sicilia la si scopre solo attraverso gli occhi di Verga e Pirandello, come le ultime generazioni scolastiche, da decenni a questa parte, hanno fatto. Quale modo migliore allora per imparare qualcosa in più, che magari neanche Sciascia mi aveva trasmesso nel suo “Il giorno della Civetta”? 

Il problema è che io, “Conversazione in Sicilia” alla fine, l’ho letto dopo il viaggio, e quindi non è stata la mia personale anticipazione di ciò che avrei visto, ma il racconto di quello che solo in parte avevo assaggiato e che nei prossimi viaggi, giù in Trinacria, vorrei vedere. Come sempre non racconterò nulla del libro né di personaggi né di fatti, ma scrivo di un treno che viaggia lento da Messina a Siracusa e attraversa la costa est, con il mare alla sua sinistra e l’enorme massa dell’Etna alla sua destra. 

Un treno pieno di uomini ed ogni uomo rappresenta un personaggio tipico della sua terra, come potrebbe essere però un personaggio tipico della nazione intera, come in definitiva, potrebbe essere ognuno di noi, dipinto a tratti leggeri sul quel treno. E poi, il capolinea a Siracusa e il cambio di treno, una linea secondaria, interna, che lenta si arrampica verso le montagne del centro dell’Isola, tra fichi d’india e fantasmi di ragazzi che alzano la mano e salutano, apparsi dal nulla e dal nulla inghiottiti, per sempre. Un altro capolinea e un altro viaggio, stavolta a piedi, attraverso il passato che ritorna, che piano piano riemerge, passo dopo passo, tra una madre che racconta al protagonista della sua infanzia e un paese intero che racconta se stesso: tra malaria, soldati che partono per la guerra, neve sulle montagne e notti con cieli illuminati da milioni di stelle, il socialismo che resta un’utopia, il fascismo, i cimiteri con i fantasmi, il vino che tutto fa dimenticare, la fame, la sete, il tradimento e l’onore, le vecchie e le giovani sul capezzale che succhiano lumache dal guscio, il cinese che solitario vende mercanzia che nessuno comprerà, la multa per un carrettino da arrotino lasciato di fronte ad una bottega, il freddo intenso sulla nave d’inverno, le arance, il monumento ai caduti. 

Vittorini racconta la Sicilia del 1941, ma è come se in Sicilia nemmeno ci fosse, perché in realtà racconta come un uomo vivesse quel 1941, come lo sentisse un intellettuale, che vagava per la sua terra senza più speranza per il futuro non solo suo ma dell’umanità intera. Non sarà la Sicilia del 2014 né tanto meno lo specchio dell’Italia odierna, ma in fondo, dalla realtà di oggi non è poi tanto lontano, perché se oggi il nostro senso di vuoto non viene più dalla carneficina della guerra o dal buio dei totalitarismi, questo senso di vuoto è rimasto intatto in noi, vivo, e paradossalmente, si è fatto più forte, perché oggi non sappiamo più da cosa stiamo scappando, perché oggi non sappiamo più a cosa aggrapparci, in attesa che la luce fuori dal lungo tunnel si faccia più vicina. Capolinea.


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