mercoledì 23 dicembre 2015

Mi raccomando a Natale regalate libri che porcoggiuda basta co ste cazzo de sciarpe che fanno pure 38 gradi tra l'altro.

C'è una casa editrice che si chiama Iperborea. Se non l'aveste mai sentita nominare non preoccupatevi perché sicuramente avrete visto i suoi libri e il loro curioso formato. Il lato lungo di un immaginario rettangolo, è nella media ma quello corto è molto più piccolo che negli altri libri, sicché sembra che il libro si apra a metà e comunque, le pagine scorrono via molto più veloci, visto che lo spazio per le parole è minore. Detto questo, mi era già capitato di leggere un libro di questa casa editrice ed era niente popò di meno che "Il Medico di Corte" di tale Per Olov Enquist. Il libro mi era piaciuto molto, ma nonostante questo, da quel momento non ero più entrato in contatto con scrittori del profondo Nord Europa, finché una collega (finlandese) non mi ha parlato di Arto Paasilinna e del suo libro più famoso "L'anno della lepre". La prima cosa che sorprende di questo libro (che ho scoperto essere piuttosto famoso anche in Italia) è che non è recente, anzi, risale al 1975. Questo per dire che, nonostante la trama ricordi una sorta di "Into the wild" versione finlandese, non è ispirato alle note avventure di Christopher McCandless. 

Per sommi capi la storia è questa: un giornalista quarantenne, stanco e deluso dalla sua vita professionale e coniugale, sta attraversando una foresta in macchina (insieme ad un collega fotografo). Senza volerlo i due investono una lepre che ferita, fugge all'interno della foresta. Il protagonista esce dalla vettura, si inoltra tra gli alberi per cercare la piccola lepre e non torna più indietro. A quel punto inizieranno mille avventure che, e questo è il bello, non sono affatto irreali o romanzate come si potrebbe pensare ma sono avventure alla portata di tutti, a patto di avere il coraggio di fare quello che ci pare, senza badare a convenzioni sociali o obblighi quotidiani. Rapportato al ben più noto Into the wild, qui il protagonista è innanzi tutto molto più esperto di Alexander Supertramp ed è quindi in grado di sopravvivere nella foresta da solo, anche perché, non cerca l'isolamento totale ma un semplice peregrinare tra le piccole ma civilizzate cittadine della Lapponia. Qui non si tratta di scappare dall'occidente e dalle sue convenzione, qui si tratta di scappare da una moglie oppressiva e da un lavoro degradante. Nel finale, ci sarà il tanto atteso (non certo dal protagonista) ritorno alla vita di città, ma solo perché nel frattempo le condizioni di base saranno cambiate e il protagonista avrà trovato ragioni e stimoli nuovi per smettere di nascondersi tra boschi e baite. 


Insomma, so che questo post non è stato particolarmente simpatico come altri né che possa avervi raccontato il libro con tale dovizia di particolari da spingervi ad acquistarlo in massa, però, se in un lungo e noioso pomeriggio domenicale, vi trovaste come me a gironzolare per una libreria cercando qualcosa di stuzzicante (e aspettando che inizi la partita della Virtus Roma al Palazzetto), vi consiglio di comprare "L'Anno della lepre" e gustarvi qualche ora di svago, con un finlandese sorprendentemente simpatico ed appassionante. Hyvästi ja kiitos.

martedì 24 novembre 2015

Ho l'autografo di De Cataldo. No, non ho detto Massimo Di Cataldo ma De Cataldo, De Cataldo, De Cataldo.

Grande sorpresa ieri sera al corso di scrittura creativa di mamma Rai: ospite d'onore Giancarlo De Cataldo, autore, tra gli altri, di  Romanzo Criminale, Suburra, il nuovissimo La notte di Roma e tanti altri libri nonché raccontini spesso non di genere poliziesco. De Cataldo, che è abituato a ben altri pubblici e platee e che spesso va a dire la sua in televisione o a convegni di alto spessore, ci ha intrattenuti con vari monologhi (preceduti da domande della docente del corso), nei quali ci ha raccontato il suo punto di vista sulla scrittura, sulla cronaca, su quanto è bello scrivere ma contemporaneamente leggere (sopratutto i classici). Per l'occasione, ho comprato il suddetto La notte di Roma, ultima fatica del binomio "magistrato De Cataldo" e "giornalista Bonini". Il libro è più o meno il seguito di Suburra, che ho avuto il non piacere di vedere al cinema (film mediocre) ma che non ho letto perché sinceramente di leggere un libro con coatti, criminali, mignotte e Roma bella, me lo risparmio che basta che apro la finestra ed è la stessa cosa. 


Ho quindi iniziato a leggere La notte di Roma con tutto lo snobismo possibile verso un genere ormai abusato (quello della Roma criminale) e con la sola curiosità di scoprire se almeno dietro questo successo si nascondesse una bella scrittura. Vediamo cosa ho trovato di positivo: 1) il libro è leggero (non nei temi) quindi lo leggi in un amen e non devi starti a scervellare né andare a ricercare su internet citazioni improbabili di filosofi della Mesopotamia boreale 2) Il libro è ambientato a Roma, in parte anche nelle perifierie, che finalmente qualcuno parla di Roma non solo per le albe al Gianicolo o le passeggiate a Via Condotti ma anche per le varie Torre Angela, Torre Spaccata, Tor Sapienza, che non è che a Roma esiste solo Torre Argentina. Aspetti negativi del libro: 1) dopo il trecentomillemillamillesimo libro su criminali de noantri, bori doppiotagliati con la pistola, zoccole d'alto bordo e politici eticamente corrotti, ci iniziamo un pò a stufare del genere, che forse sarebbe meglio variare un pò se no si corre il rischio di fare libri fotocopia. Il libro sarà pure scorrevole ma non ti lascia nulla, non nel senso che non ha una morale o che non c'è un messaggio, ma proprio che non ti lascia nulla. E' come se avessi appena finito di vedere una puntata di CSI New York: sarà anche nuova ma hai l'impressione di averne viste troppe e ormai non sanno più cosa invetarsi. 

Detto questo, alla fine mi sono andato a far autografare il libro da De Cataldo (visto che l'ho pagato 20 bombe, almeno diamogli un valore): il fantasioso magistrato, che alle ragazze giustamente sorrideva, mentre ai ragazzi diceva frasi di circostanza, a me ha detto: "Vedi, il segreto di un buon racconto sta nel riscriverlo, riscriverlo, riscriverlo, finché non sarà perfetto". Hai ragione De Cataldo, questa me la devo segnare. Che poi, io mi sono permesso di criticare il tuo libro ma ho omesso di aggiungere che sono geloso del tuo successo e che aimé, solo quando Einaudi verrà da me e mi pagherà per scrivere libri mediocri, solo allora, potrò permettermi di dirti in faccia che La notte di Roma nun è gnente de che e che è più scontata della diciasettesima estate consecutiva di repliche del Commissario Rex.

mercoledì 4 novembre 2015

Anche se oggi è il 4 novembre, parliamo di due protagonisti del 2 novembre.

Non conoscevo John Fante, o meglio, avevo vagamente sentito parlare di un film intitolato "Chiedi alla polvere" ma non sapevo fosse tratto da un libro di un tale John Fante. Quindi conoscevo Chiedi alla polvere ma non conoscevo Fante. Va bene, proseguiamo. L'incontro occasionale ma felice, c'è stato grazie all'intervento di un'amica che scoperta la mia passione tutt'altro che segreta per Bukowski, mi ha detto "Ei, ti devi leggere assolutamente Fante. Hanno lo stesso stile di scrittura. Se ti è piaciuto Bukowski non può non piacerti Fante". Perfetto penso io e cominciando a documentarmi, scopro che questo Fante è nato e cresciuto prima di Bukowski e che dopo un iniziale successo, i suoi libri sono inevitabilmente caduti nell'oblio dei decenni, finché proprio Bukowski, già molto noto, lo ha riscoperto e fatto pubblicare dalla sua casa editrice. Non saprei dire se oggi sia più conosciuto Fante o Bukowski ma posso dire che è vero che il loro stile di scrittura è simile (1 libro di Fante letto a fronte di 2 libri di Bukowski letti). Ad accomunarli è innanzi tutto la prima persona con cui scrivono i testi e l'impetuoso flusso di pensieri, che ci permette di entrare, senza troppi fronzoli, nella mente dei due: quella di Bukowski votata al sesso e all'alcool, quella di Fante votata alla scrittura e alla ricerca della religione perduta.

Chiedi alla polvere è una sorta di autobiografia di Fante che nel racconto si fa chiamare Arturo Bandini, giovanotto alla disperata ricerca di un'ispirazione che gli faccia scrivere o il racconto o il libro della vita. Sfaticato, terrorizzato dal sesso e deviato da una forte e superstiziosa educazione cattolica, Fante/Bandini sperimenta la vita giorno per giorno e ogni tanto la butta giù su carta bianca per poi spedire il testo in busta chiusa a qualche editore, sperando che il suo pensiero piaccia. Insomma, è la classica storia di ogni aspirante scrittore, la classica storia in cui immedesimarsi se in fondo, anche se sei un semplice impiegato, da grande sogni segretamente di fare lo scrittore.

Ecco, proprio questo immedesimarmi in Fante (o immedesimarci, amici aspiranti scrittori), mi ha colpito molto, non tanto per i segreti sogni condivisi, quanto per il fatto che Fante/Bandini oggi sia morto e sepolto e che quindi questi suoi sogni e queste sue speranze (per altro realizzate con fama post morte), siano ora vecchi sogni perduti, trasportati dal vento in qualche angolo di cielo. Sarà che qualche giorno fa era il 2 novembre e che mi sentivo malinconico, ma che ne so, mi sono venuti in menti questi sogni di Fante e c'ho visto i sogni di qualsiasi uomo vissuto su questa terra. I nostri sogni. Leggendo il libro ritrovavo la mia e la nostra vita, fatta di piccole cose ma anche di costanza e determinazione (più o meno incanalata nel giusto verso), per realizzare quello in cui crediamo.


Che poi se ci pensi bene, caro amico Fante, che differenza c'è tra sognare in grande e sognare in piccolo? Che cosa cambia per noi, umili sognatori egocentrici, se il nostro racconto sia apprezzato da milioni di persone o da una decina di parenti? Anche un solo complimento, il più stringato, il più diretto, il più inaspettato, ci lusinga e ci gonfia il petto, come se avessimo firmato un contratto a vita con la Mondadori. Chiedo alla polvere caro amico John e la polvere mi risponde: provaci. Avete letto il post e non avete capito nulla? Nemmeno io ma il succo è: leggete Fante. Saluti. Marco

giovedì 15 ottobre 2015

Io sperassimo che me la caverebbe.

Cosa vorresti fare da grande? E' una domanda che mi facevano spesso (tra l'altro fino a pochi anni fa) e alla quale ho sempre risposto in questo modo: o il camionista o il telecronista. Confesso di non aver mai fatto molto per diventare nessuno dei due. Il telecronista l'ho fatto una sola volta, per una radio locale, seguendo un'emozionante Città di Marino - Tor Bella Monaca (2 a 1 per i locali) ma il sogno non è mai stato coltivato a dovere, forse perché lavorare gratis alla fine, anche se hai 25 anni, tende a stancare. Per quanto riguarda il camionista invece, non sono mai nemmeno salito su un camion e ho quindi preferito far cadere quel sogno nel dimenticatoio (con buona pace degli amati autogrill ma con riconoscenza della schiena). Alla veneranda età di 30 anni quindi, mi sono ritrovato senza particolari sogni nel cassetto, se non quello di veder vincere qualche trofeo alla Virtus Roma, quello di visitare il Giappone o quello di farmi assumere in Alitalia e volare gratis per i 7 mari (e quindi realizzare anche quello del Giappone).


Poi ad un certo è arrivata la Rai, mamma Rai, a stuzzicare quel mio piccolo grande e nuovo sogno, di combinare qualcosa nella vita come scrittore. O di romanzi o di messaggi dei Baci Perugina, non ci formalizziamo. Mamma Rai ha bandito un concorso per entrare nel suo laboratorio di scrittura creativa e io l'ho sorprendentemente vinto. Non dico sorprendentemente perché non sappia scrivere (almeno non sbaglio i congiuntivi) ma perché ero convinto entrassero solo raccomandati. Più che altro è stata questa la sorpresa. Dopo queste inutili righe di preambolo, posso finalmente dichiarare il motivo per cui questo post è qui: sto per l'appunto, seguendo il suddetto corso. Al momento posso raccontare solo della mia prima volta, avendo vissuto quella, ma riesco già darvi qualche deliziosa anticipazione.


Il corso ha 2 docenti (uomo giovane, donna matura) e 80, dico 80, partecipanti. Quindi già il nome del corso mi suona di beffa: come puoi parlarmi di scrittura creativa in 80? Dimmi semplicemente che facciamo delle conferenze sulla scrittura e almeno io mi preparo ad essere uno dei tanti (per altro stavo anche in ultima fila, ma quello per deformazione professionale). In via Teulada non ero mai stato, figuriamoci oltre i cancelli Rai, eppure avevo come la sensazione che non avrei trovato grandi sale moderne né servizi da business school americana. Ma insomma, tra quello e una sala conferenze con moquette blu del 1992 e modernissimi schermi tv da 19 quintali ciascuno, credo che in una via di mezzo si potesse sperare. Il tema della prima lezione, della durata di ore 2 e mezzo circa (con mezz'ora di fila per farsi accreditare all'ingresso), è stato quello del punto di vista dello scrittore, o meglio, del punto di vista con cui lo scrittore vuole scrivere il romanzo e come far parlare il protagonista: se in prima o seconda persona. Vi anticipo nel pensiero e vi scrivo subito che se non avete capito nulla di quello che ho detto, è solo perché a mia volta non ho capito molto io, nel senso che ho capito più o meno quello che si è detto a lezione (o in conferenza, per meglio dire) ma non ho capito cosa si intende per punto di vista. Va bé, ci sono ancora 11 lunedì per entrare nel merito.


Detto questo, ho come al solito tirato fuori il peggio di me e sputato pesantemente nel piatto in cui mangio, denigrando tutto il denigrabile di questo corso. Voglio essere sincero invece e confessarvi che è tutta fuffa, tutta apparenza. Non me ne frega niente se siamo un milione di partecipanti, se dovrò seguire le lezioni in piedi, se non capirò il senso delle cose, se domani cascasse il mondo. Ricevere la mail di accettazione al corso è stata una delle gioie più grandi mai vissute e vivrò questa avventura cercando di cogliere tutto quello che potrò far mio. E come disse, in un grande film, un teppistello napoletano che scrisse un tema e lo portò a Paolo Villaggio prima che partisse in treno: Io speriamo che me la cavo.

domenica 4 ottobre 2015

Interroghiamo, Interroghiamo. Di Luzio! Ma porco cane.

Vi siete mai chiesti chi o cosa decida, se un autore debba finire nei libri di scuola? Nel senso, chi ha deciso che l'Alfieri debba avere 30 pagine dedicate sul libro di letteratura del quarto anno o che so, Verga ne debba avere 20 su quello del quinto? Perché Verga si, con i suoi pallosissimi e lentissimi romanzi e un Pinco Pallino sfigato no, anche se magari ha scritto decine di romanzi di alto umorismo e critica sociale? Forse, dico io, ci si basa semplicemente sul concetto di bello. D'altronde, penso, se leggi "la pioggia nel pineto" di D'Annunzio non puoi non pensare che sia un capolavoro e che quindi meriti di essere lì. Ma in altri casi, il bello potrebbe essere soggettivo, anzi, è la cosa più soggettiva in assoluto. 

Un'altra cosa che mi sono sempre chiesto è perché nel programma scolastico, almeno quello svolto da me dieci anni fa, fosse necessario stare due mesi a spaccarsi le palle leggendo Parini e Alfieri (si, l'Alfieri non lo reggo) e si dovesse fare velocemente il novecento, salvo fermarsi alla prima Guerra Mondiale, che tanto poi l'anno era finito. E' così che mi sono perso dei mostri sacri della scrittura, mostri talmente sacri che puoi essere soggettivo quanto ti pare, ma quelli restano mostri. Mi sono ad esempio perso Pavese, che nel mio caso ho scoperto alla tenera età di quasi 31 anni, ma solo perché ho voluto approfondire la cosa e leggere almeno un suo libro, forse il suo libro più famoso: La luna e i falò. Giusto per dovere di cronaca, io ho fatto il liceo scientifico in Viale Cesare Pavese a Roma. E nessuno, dico nessuno, ci ha mai spiegato chi fosse Pavese. 

Come spesso accade su questo blog, non vi parlerò del libro in sé, per altro una storia senza grandi colpi di scena, bensì vi parlerò di Cesare, piemontese, che visse una vita di grandi soddisfazioni letterarie ma non altrettanto amorose, tant'è che purtroppo, scelse di chiudere il sipario prima del tempo e fu lui stesso a tirare la tenda, come solo i più eroici (o folli) eroi classici facevano. Vi parlerò della sua scrittura, fresca e ordinata, senza pretese di voler per forza essere il migliore ma solo desideroso di raccontare, la storia e i profumi della sua terra e le storie e le pieghe dei suoi pensieri. La luna e i falò è un libro che meriterebbe di finire nelle antologie della letteratura (come per altro è), non perché Pavese sia un raccomandato né perché qualcuno abbia deciso così, ma semplicemente perché è un libro bello e che, confesso, a tratti commuove. Non commuove per ciò che racconta ma per come lo racconta. Quasi che dalle parole si svelasse l'essenza stessa di Pavese, il suo carattere e i suoi pensieri. Se anche voi come me, a scuola, aveste saltato Pavese, allora scopritelo da soli perché ne vale pena. Poi interrogatevi e datevi un bell'8. So soddisfazioni. 



martedì 8 settembre 2015

Ti voglio bene Umberto Eco (eco eco eco eco eco eco)


Non sono il tipo che insegue autografi di celebrità né di persone interessanti. Primo perché non sono il tipo, secondo perché forse, tutti quelli che mi interessano davvero sono già morti (a parte Kundera). Fanno eccezione pochi eletti, per i quali non dico di avere una venerazione, ci mancherebbe, ma mi stanno molto simpatici. Tra questi c'è certamente Umberto Eco, con il suo visone sempre imbronciato, sempre pronto a mandarti a quel paese perché non sei abbastanza intelligente per lui, sempre pronto ad elargire medioevalità, che tanto chi lo può smentire? Non ho modo di controbattere se mi parli degli usi e costumi dei Longobardi di Alboino. Insomma, fatto sta che qualche anno fa ero andato all'Auditorium a Roma, ad ascoltare un'intervista proprio ad Eco (credo stesse uscendo il Cimitero di Praga) e c'ero andato con la mia copia del Nome della Rosa, fiducioso di poter avere un autografo del noto autore. Nemmeno inizia lo show che l'intervistatore esordisce: mi spiace ma il professor Eco ha una mano fasciata, quindi oggi non rilascerà autografi a fine serata. E lì maledizioni generali della platea, a quel punto quasi tentata di sfollare prima del tempo. 

Fatto questo ampio preambolo, giusto per dire che Eco mi piace, anche se finge di avere la mano fasciata, passiamo alla recensione del giorno, ovvero, Numero Zero, ultima fatica (come si dice), del semiologo piemontese. Che volete che vi dica? Io ero abituato a leggere Eco e a fermarmi dopo 20 pagine, preso dallo sgomento per non averci capito nulla e invece Numero Zero te lo bevi come un bicchiera d'acqua fresca, anzi, quasi quasi sembra un romanzetto scritto da un chiunque, al confronto con i suoi altri libri. Magari non sarà ai livelli di La solitudine dei numeri primi (a proposito di numeri) ma quasi (e La solitudine dei numeri primi è il romanzo più sopravvalutato della storia). Va be' dai, forse esagero, in fondo il professore è sempre il professore. In fondo nel romanzo ci sono ogni tanto citazioni erudite ed è un piacere immergersi nell'atmosfera dei bei vecchi anni 90, con tanto di complottismo con chiamata in causa di Mussolini, Licio Gelli e Ajo'Cossiga. Sarà pure padrone Eco, ogni tanto, di stancarsi di scrivere da professorone e di rilassarsi e raccontare cose più semplici? 

Ok, tiriamo le fila. Se siete amanti dell'Eco arzigogolato e da libro di 500 pagine, rimarrete delusi. Niente ore passate a decifrare una pagina e niente delirio di onnipotenza se riuscite a finire il libro. Se invece non conoscete Eco e volete vantarvi di averlo letto almeno una volta nella vita, fatevi sotto, perché questo libro lo consiglierei anche ad un bambino di terza media. Detto questo, chi sono io per recensire Eco e addirittura criticarlo? Ovviamente nessuno ma il blog è mio e qui comando io. E se Eco si azzarda a chiedermi un autografo, gli chiedo indietro i soldi del biglietto dell'Auditorium. 


lunedì 3 agosto 2015

L'amigdala, o corpo amigdaloideo, è una parte del cervello che gestisce le emozioni ed in particolar modo la paura.


Tutto quel sommuoversi di istinti che in certi periodi trae gli uomini fuori dalle città sonanti per spingerli nelle foreste o nella pianura a uccidere esseri animati con pallottole di piombo lanciate da mezzi chimici, l'avidità di sangue, la gioia di uccidere, tutto ciò era in Buck, ma infinitamente più profondo. Correva alla testa del branco dietro a quell'essere selvaggio, quel cibo vivente, per uccidere con i suoi denti ed immergere fino agli occhi il muso nel sangue caldo”.
Confesso subito: non avevo mai letto “Il richiamo della foresta”. Che ci volete fare? D’altronde, pensavo, certi libri o si leggono da piccoli, o non si leggono più. E’ come se oggi mi mettessi a leggere che so, Pinocchio. Dai, è una cosa da biblioteca dei ragazzi. Che ci azzecca un libro del genere a 30 anni? Poi però trovi il libro in una delle solite bancarelle dell’usato e tanto per toglierti lo sfizio lo prendi. In fondo, pensi, è uno dei libri che Christopher McCandless si porta a spasso, nel suo peregrinare in “Into theWild”. Ci sarà un motivo no? Ora lo posso dire: il motivo c’era eccome. Altro che libro per ragazzi, questo è un libro per ogni età e per ogni epoca. Non manca nulla: avventura, pericoli, passioni, colpi di scena, delusioni, sangue, istinto. Forse la prosa di London non sarà delle più ricercate (ora capisco perché è un libro per ragazzi, si legge in un giorno e non si trovano paroloni né descrizioni frastagliate), ma ci sono dei passaggi che fanno venire la pelle d’oca per l’emozione. 
La vicenda: Buck è un cane che vive felice nel sud degli Stati Uniti, finché un giorno viene venduto (all’insaputa del suo ricco padrone) ad una organizzazione criminale (definiamola così). Il cane viene addestrato a suon di bastonate a starsene buono e a tirare la slitta, nel gelido nord del Canada, alla ricerca dell’oro e per consegnare la posta (a seconda del padrone che via via se lo compra). La sua vita cambia ma con il tempo è lui stesso a cambiare: sviluppa quegli istinti di sopravvivenza repressi, che ogni cane ha ma che l’evoluzione ha celato, tra una carezza del padrone e un comodo fuoco accanto a bambini. Buck diventa un leader, prima tra i cani con cui lavora, poi di se stesso, seguendo il suo istinto e quasi assumendo una consapevolezza di sé, degna di un essere umano (d’altronde è un racconto, ci sta). Ma più passa il tempo, più la selvaggia natura che lo circonda sembra richiamarlo. Non è il suono del vento né l’ululato dei lupi: è qualcosa che lo prende da dentro, che gli fa rizzare il pelo anche se non c’è nulla intorno a lui.
Era dominato dal violento insorgere della vita, dalla marea dell'essere, dalla completa gioia di ogni singolo muscolo, di ogni giuntura, di ogni nervo in quanto essi erano tutto ciò che non è morte, tutto ciò che arde e che aggredisce esprimendosi nel movimento, volando esultante sotto le stelle e sulla superficie della materia morta e immobile”.
E’ l’istinto che dopo millenni torna a vibrare, sono gli spiriti dei cani di un tempo che vengono a chiamarlo per farli tornare in vita, attraverso il suo correre senza paura nella foresta sconosciuta. Immagino che il libro abbia un milione di sfumature che forse io non ho colto, ma non importa, mi basta pensare che anche se è stato scritto nel 1903 (mi sembra), quello che racconta e il messaggio che mi ha trasmesso, è ancora attuale. Siamo ancora in tempo per permetterci di evolvere, come civiltà, senza scordarci di lasciare che il pianeta non muoia, anzi, cresca con noi. Che bello sarebbe riuscire a coniugare città iper tecnologiche e a misura d'uomo, con immensi spazi vergini, lasciati alla natura, poiché l'uomo potrebbe non aver bisogno di distruggere tutto il pianeta, per viverci bene. 
Il richiamo della foresta è in ognuno di noi, in alcuni nascosto nel profondo e in altri si accende di continuo. Ma è lì, perché un tempo, come Buck, avevamo antenati selvaggi che vivevano in un mondo in cui tutto era ostile e la vita era breve. Sarà per questo che adoro mettere i piedi nudi sull'erba. Sarà per questo che ho il terrore che qualche pesce misterioso mi porti via se nuoto troppo al largo in mare. Sarà per questo che il buio ci spaventa ancora e non ci sarà mai luce così intensa, da farci dimenticare chi siamo stati e ancora siamo.


domenica 26 luglio 2015

Attenzione, l'isola nella foto non è alle Tremiti.

Sono certo, sarà capitato ad ognuno di voi, almeno una volta nella vita. A l’uscita di una libreria o di un cinema, in riva al mare mentre vi rilassate e vi friggete, fuori da un supermercato o semplicemente camminando lungo la strada. Un ragazzo dalla pelle scura (ma che più scura non si può), avrà provato a vendervi un libro. Uno, due, tre volte no, alla quarta però ti fermi e basta un secondo, un solo secondo di cedimento, nella tua diga di indifferenza (necessaria per sopravvivere nella giungla della strada) e lui si infila, allarga la breccia e parla (parla, parla, parla). I suoi libri non sono quelli che trovi in libreria, ma brevi racconti africani (o ricette, o romanzi o biografie) pubblicati da case editrici indipendenti e in teoria, fondate appositamente per aiutare gli immigrati. Le case editrici offrono un contratto ai ragazzi (e di conseguenza gli garantiscono un permesso di soggiorno), gli danno copie dei libri, e aspettano che loro li vendano, così da ricavarci anche un giusto guadagno (e nessuno deve anticipare nulla). 

Nell’arco degli anni, ho comprato tre libri in questo modo: due sono molto simili, il racconto di ragazzi senegalesi arrivati in Italia con i barconi e che adesso si guadagnano da vivere qui, il terzo è un libro di cucina africana, con ricette accuratamente occidentalizzate (anche perché molta della frutta e verdura usata per prepararli, qui non si troverebbe). I racconti sono scritti in un italiano semplice, scorrevoli ed interessanti, se non altro perché ti raccontano la vita dei “migranti”, così si dice adesso, dal loro punto di vista. E certamente non è una gita a Gardaland, come si può immaginare. Questo post non ha nulla di politico né intende trasmettere un messaggio. Sono convinto che si debba aiutare chi ha bisogno come che sia impossibile aiutare tutti. Ma sono anche sicuro che qualsiasi cosa faremo, o proveremo a fare, sarà come asciugare il mare con un fazzoletto (come si dice), perché di fronte a guerra e povertà, niente fermerà chi continuerà a scappare verso le nostre spiagge. 

Detto questo, e qui volevo arrivare, la prossima volta che vi fermano per vendervi questi libri, non dico di comprarli, ma almeno leggete i titoli e incuriositevi. Non avrete capolavori tra le mani, ma potrete senz’altro fare due cose: aiutare con pochi euro chi ha bisogno ed evitare di spendere soldi, per libri sul genere di "50sfumature di grigio" (o di "nero Africa", se preferite).

venerdì 10 aprile 2015

Caro Fedor ti scrivo, così mi distraggo un pò, e siccome sei morto e sepolto, la querela non temerò.

Alzo le mani, non ce la faccio più; hai vinto tu, Fedor. Ho aperto per la prima volta L'idiota di Fedor Dostoevskij circa due mesi fa e ad oggi, sono arrivato a pagina 400 su 600 ma non riesco proprio ad andare oltre. A mia parziale scusa posso dire, caro Fedor, che nel frattempo ho avuto tante altre cose da fare che stare a leggere il tuo famoso mattone: ho lavorato, ho nuotato, ho mangiato, ho perfino letto almeno un altro paio di libri. E tu eri sempre lì sul comodino, fedele, ad offrirmi quella tua decina di pagine ogni tanto, che ci mettevo venti minuti solo per ricordarmi quello che avevo letto prima ed immergermi di nuovo nella storia. Che poi caro Fedor, era partito così bene questo libro: non era la solita palla russa con centinaia di pagine di descrizioni di ambienti e personaggi, che ti strappa l'anima e ti sotterra vivo. No, la storia scorreva, i personaggi non erano centinaia di migliaia, ma pochi e raccontanti quasi nell'intimo. Addirittura ero riuscito ad affezionarmi al Principe, il protagonista, l'idiota appunto. Lui così candido ed onesto, così sempliciotto ma così affascinante nel suo essere sé stesso (e quanti cuori infranti di donne). 

Ma cavolo, mi davi speranza per qualche pagina e poi, ecco che ti perdevi in cene lunghe interi capitoli, in cui ogni personaggio doveva parlare e dire la sua e farlo su argomenti così noiosi, che non riuscivi proprio a trovare la forza per andare avanti. Ma come? Sei riuscito a farmi innamorare di San Pietroburgo senza ammorbarmi di descrizioni, e poi ti rovini raccontandomi le vite parallele di personaggi ultra secondari, che non si capisce se stai parlando di oggi, di ieri, di chi cavolo stai parlando, di quando hai cominciato a parlarne. L'idiota di Fedor Dostoevskij per me, si è chiuso a tre/quarti. Non so come finirà e forse, non lo saprò mai per tutta la mia vita. 

Ora, le opzioni che si aprono sono tre: o vado su Wikipedia e mi leggo la trama (rapido e indolore), o mi vedo su Youtube le sei ore di sceneggiato in bianco e nero estratto da qualche sperduto archivio Rai, oppure, ultimo ma non per importanza, me lo invento il finale. Sai che soddisfazione? Mi faccio rapire dalla fantasia e immagino il protagonista che si alza, ad una di quelle belle ed interminabili cene sulla terrazza della sua casa, e in mezzo a tutti gli invitati (che parlano ad alta voce e ognuno dice la sua sul nichilismo dilagante in quella Russia di metà ottocento), ecco, il Principe, si alza e grida “A regà, m'avete proprio rotto er cazzo, io vado a letto, l'ultimo che esce chiudesse la porta. E sempre forza Zenit”. Io me lo voglio ricordare così. Ciao Principe, e sempre viva la grande madre Russia.

venerdì 3 aprile 2015

Ecco vedi? Faccio in tempo a dire che mi piacerebbe fare un bel tour del Veneto, che eccoti un libro ambientato tra Padova e Treviso.


Questo inverno, sui social network, come in televisione, ho sentito spesso discutere intorno al tema del vaccinare o meno i figli e farli crescere secondo principi diversi rispetto all'idea generale che ha la società (quanto meno quella occidentale). Non entro nel merito della discussione (anche se faccio fatica ad immaginare scienza e medicina assoggettate ad una lobby segreta che ci vuole plagiare e controllare tramite medicine e cibo), ma resto affascinato da questo tema, che vede due fazioni opposte senza alcuna possibilità di compromesso. Chi patteggia per il non vaccino, lo fa in effetti con tale passione e convinzione, che per forza di cose ti viene la curiosità di informarti e cercare di capire da dove nasca quella loro inscalfibile certezza che tutto sia sbagliato e dannoso. 

Se non volete entrare nel merito né leggervi articoli o saggi, scegliete "Il bambino indaco” di Marco Franzoso, che condensa in poche pagine, un po' tutta questa visione new age e parallela della medicina e del modo di vivere di una certa parte del mondo (e di chissà quante persone che ogni giorno incontriamo). Il libro entra a passo deciso nella vita di una giovane coppia, prima innamorata sinceramente, poi minata dall'attesa e dalla nascita del loro bambino. Il casus belli, come si dice, sono le idee diciamo alternative della madre (che emergono solo con la gravidanza, sennò il padre da mo' che sarebbe scappato). Il bambino che nascerà, secondo lei, sarà speciale, e per questo dovrà aiutarlo fin dalla gravidanza a sviluppare le sue capacità. A partire dall'alimentazione che sarà ridotta all'osso, per evitare che la sua aura possa essere contaminata dalle tossine negative che compongono ogni cosa che mangiamo e ci circonda. 


Diciamo subito che la cosa degenererà decisamente e che il finale del libro è abbastanza scontato, con scelte dei protagonisti che forse in cuor nostro, tutti noi avremmo fatto. Non dico altro, il libro si legge in una notte se avete voglia, vi metterà un pochino di angoscia e vi farà sospettare che dentro qualsiasi persona al vostro fianco possa nascondersi una personalità decisamente non affine alla vostra, ma sarà un libro che vi farà riflettere anche su di voi, sulle scelte che fate e sul tempo che impiegate ad accorgervi degli errori, senza avere poi il modo di tornare indietro. Concludo con due cose: la copertina è stata scelta da Dario Argento immagino e, che cacchio di colore è l'indaco?

martedì 3 marzo 2015

Se cadessi in un pozzo, mi rompessi una gamba e morissi dopo giorni di agonia tra freddo, ragni e lacrime, sarei comunque più allegro dei protagonisti di questo libro.

Ho appena finito di leggere Norwegian Wood di Haruki Murakami. Poi, preso dalla curiosità, ho ascoltato la canzone da cui è ispirato il titolo, ovvero Norwegian Wood dei Beatles. Sono rimasto colpito perché la canzone è quanto di più lontano ci possa essere dal libro. La canzone ha una melodia allegra e un testo che strappa un sorriso: un ragazzo va a casa di una ragazza convinto che sarà una notte di fuoco e invece, prima la ragazza parla fino alle due di notte e poi lo manda in bianco, facendolo addirittura dormire nella vasca. Al mattino, il ragazzo, solo nell’appartamento, si vendica dando fuoco alla mobilia della ragazza, di splendido legno norvegese. Mi domando che parallelismi possano esserci con il racconto, che invece, non ha alcuno spunto allegro e non strappa un sorriso nemmeno a pagarlo. Nel libro, Norwegian Wood è la canzone preferita di una delle protagoniste, che però a sua volta è un personaggio di una tristezza e di una negatività che fa venir voglia di girare pagina ogni volta che c’è una sua battuta o si parli di lei. Forse, se un parallelismo devo trovarlo, c’è il fatto che questa ragazza (che poi si chiama Naoko) manda spessissimo in bianco il protagonista (Watanabe) che non si sa come è ossessionato da lei, nonostante il suo carattere chiuso e malinconico all’ennesima potenza. 


E’ difficile raccontare Norwegian Wood perché una trama c’è, è vero, ma in 370 pagine si sviluppa lenta e angosciante, andando a raccontare tre anni della vita del protagonista, che a forza di frequentare quella Naoko, trascorre i suoi vent’anni come se ne avesse novanta e fosse chiuso in una casa di riposo senza speranze per il futuro e senza pulsioni vitali. Detto questo, Murakami è senz’altro un maestro (e questo lo avevo già riscontrato in 19Q4), perché descrive paesaggi, odori e sentimenti, con splendide metafore e come se stesse dipingendo, lentamente, un acquerello. Ma quello che lascia costantemente in tensione, in questo libro come in 19Q4, è la serie infinita di pagine che si susseguono senza che succeda nulla e senza che la storia abbia uno spunto nuovo. Murakami è capace di raccontarti tre giorni consecutivi in cui succedono esattamente le stesse cose, eppure te le racconta, sempre con la stessa dovizia di particolari e sempre con le impressioni dei protagonisti che ovviamente, a distanza di tre giorni, non possono essere cambiate di molto. 

Al di là dell’angoscia del racconto, della profonda antipatia per tutti i personaggi (che andrebbero deportati in Siberia, tanto avrebbero sempre la stessa espressione), al di là di questi toni cupi e questa luce sempre autunnale, Norwegian Wood è senza dubbio un libro bello, che può piacere e non piacere ma che è scritto meravigliosamente bene e che rapisce, dalla prima all’ultima pagina. Certo, rapisce perché ci si aspetta che succeda sempre qualche cosa e poi non succede mai, ma chi sono io per giudicare uno che ha venduto così tante copie e che certamente scrive molto meglio di me? Insomma, se siete in un periodo triste e avete voglia di tirarvi su, ascoltate i Beatles e leggete cose più leggere. Se invece volete immergervi un pò nelle atmosfere del Giappone e siete pronti ad affrontare lunghi discorsi vuoti e senza senso, allora comprate il libro e in un paio di giorni liberi lo divorerete. Giù il cappello per Murakami e sempre viva il Giappone. Sayonara.

mercoledì 18 febbraio 2015

Un libro triste ma talmente tanto triste che non so se consigliarvelo o meno.

Sono triste. Terribilmente triste. Triste come non succedeva da tempo. E triste per un libro. Un libro che nemmeno mi piaceva così tanto. Ma andiamo per gradi. Sono anni che entro nelle librerie e che mi ritrovo La versione di Barney, lì in prima fila tra i libri esposti. Così bello, così grande, che a sfogliarlo sembra la Bibbia per quante pagine ci sono. E poi questo nome che ritorna e infatti hanno anche fatto un film sul libro. Ecco perché mi è entrato così in testa. Ma allora deve valere la pena sto libro. Non lo compro. Aspetto. E faccio bene, perché un giorno lo trovo nella libreria di una amica e me lo prendo. A noi due, finalmente. Occhio però, mi dice l’amica, che questo libro è un po’ incasinato: troverai la soluzione solo alla fine, prima dovrai impazzire a stare dietro all’autore. Comincio e le prime pagine scorrono tranquille. Poi però si infittisce tutto, perché l’autore trasforma il protagonista in un narratore compulsivo e con l’alzheimer oltretutto, che inizia un discorso e non lo finisce. O lo finisce dopo qualche pagina, così, senza preavviso. Ci sono tre capitoli e ognuno dovrebbe essere dedicato ad un periodo della vita del protagonista, in ordine cronologico. Ma il fatto è che il protagonista racconta in prima persona ma mischia le carte, parla di una moglie e poi di un’altra e poi torna all’altra moglie, e ci mette l’amante, ci mette l’alcool, ci mette i figli che non si capisce con chi li ha fatti, finché non decide lui se farti capire o meno quello che vuole farti capire. Sempre se vuole. Avete capito? 


Oh mio Dio, penso, qui siamo molto vicini a lasciare il libro sul comodino e a cominciarne altri. Ma non demordo, non posso farlo, ho già abbandonato troppi libri nella mia vita, non posso tradire anche questo, su cui avevo così tante aspettative. Non cedo e vengo premiato.  A metà libro, forse qualcosa di più, ecco la svolta. Sto cavolo di protagonista imbocca la strada di una storia e la percorre dritta, senza uscire e raccontare altro. E’ finalmente chiaro, non solo tutto il rapporto tra lui e la terza moglie, ma anche come lo scrittore, Mordecai Richler, scriva anche piuttosto bene. Non è che prima non me ne fossi accorto, è solo che ero troppo impegnato a maledirlo perché non ci capivo nulla della trama. Ed è qui che scatta il bello, perché adesso che la storia la seguo meglio, realizzo che è di una tristezza infinita. Questo povero uomo, che in realtà è un ricco ebreo canadese ubriacone, della vita non gliene frega poi molto, se non in relazione all’amore smisurato e sincero, che prova per Miriam, questa suddetta terza moglie. Solo che il protagonista, questo amore non è che se lo coltivi poi molto ma lo da' per scontato. Scontato, scontato, scontato, finché lei, dopo trent’anni, lo molla. Non sto qui a raccontare il finale ma questo protagonista, che ovviamente si chiama Barney, non è che finisca la sua vita nel migliore dei modi e fino alla fine, più o meno cosciente, non fa altro che sperare che la sua Miriam ritorni, con esiti che come detto, non sto qui a spoilerare

Non so sinceramente se consigliarvi o meno questo libro. Se riusciste a finirlo, sono certo che vi piacerà, ma se non riuscite ad arrivare alla fine, perché sorpresi dal sonno o dal labirinto di storie intrecciate, sappiate che vi siete risparmiati un po’ di sana tristezza da finale drammatico. Saluti e baci (tristi) dal drammaticamente vostro, Marco.

mercoledì 7 gennaio 2015

Comunque ridendo e scherzando,questo ha scritto un bel romanzetto. Complimenti.

C’è un ereader lì sulla mensola della mia camera, che aspetta trepidante che io parta per qualche viaggio (possibilmente in aereo). L’ereader sa che, solo quando volo, decido di portarlo con me (altrimenti nada de nada, sotto le coperte voglio solo carta stampata). Il suddetto ereader è ora contento, perché di recente ho in effetti volato. Poiché ad ogni volo lo porto con me, mi viene quasi naturale associare un libro ad un determinato viaggio, visto che di solito comincio a leggere un qualsiasi cosa sul volo di andata e che finisco sempre la suddetta cosa su quello di ritorno. Legato a doppio filo a questo mio viaggio a Wroclaw (Polonia), sarà per sempre “La famiglia Fang” di Kevin Wilson, un romanzo che apparentemente sembra solo leggero e spassoso, ma che scorrendolo, tratta temi molto importanti come il rapporto genitori figli, il ruolo dell’arte nella vita degli artisti e non, la passione per la scrittura e l’amore (etero e non). Insomma, dopo aver iniziato un paio di libri “a sensazione” e averli salutati alla seconda pagina, mentre il mio aereo sorvolava una innevata Umbria, ho cominciato a leggere dei Fang e del loro strano modo di fare arte. Padre e madre pianificano un evento, come ad esempio entrare in un centro commerciale e creare confusione con un buono pasto falso, e poi sono i due figli (A la femmina, B il maschietto) ad andargli dietro, facendo a volte da cavie, a volte da “aizza popolo”, altre da semplici spettatori che filmano la scena “artistica” con la telecamera. 


Mentre viaggiavo in bus da Katowice a Wroclaw, apprezzavo invece la bella scrittura di Wilson, che parla di temi drammatici ma lo fa con una penna da commedia, come il povero figlio B, che cresciuto e scopertosi scrittore fallito di romanzi, ritrova la voglia di scrivere (e l’ispirazione) grazie a l'amore di una normalissima studentessa universitaria, conosciuta per caso ad un suo intervento su come si trasforma una idea in un libro. Mentre tornavo da Wroclaw a Katowice (sempre in economico bus), e ai lati dell’autostrada la neve fresca copriva tutto a perdita d’occhio, apprezzavo il piccolo grande dramma della figlia A, attrice di discreto successo, prima vicina a vincere l’Oscar, poi in crisi con la sua arte e soprattutto con se stessa, divisa tra la voglia sincera di dedicarsi solo alla recitazione e quella di ubriacarsi ad ogni ora del giorno. E meno male che il volo di ritorno verso Roma è durato più di due ore, perché ho avuto tutto il tempo di godermi il finale, incalzante come fosse un romanzo giallo (in parte lo diventa in effetti) e dal finale a sorpresa (dei figli A e B, come del lettore). Insomma, se foste anche voi in futuro,  presi dal dubbio su cosa leggere in aereo durante il vostro prossimo viaggio, consiglio vivamente le tragicomiche peripezie della famiglia Fang. 

A me invece, consiglio di conservare il caricatore di qualsiasi oggetto, nella scatola dell’oggetto stesso, onde evitare, come sto scoprendo ora con l’ereader, che il caricatore nella scatola non c’è più’, Forse perso in qualche scantinato buio o forse semplicemente buttato per errore. In attesa di un post che racconti la soluzione del problema, tanti cari (e gelidi) saluti polacchi.