mercoledì 28 dicembre 2016

I am Marco Di Luzio and I want to tell you the story of Mafia in Mumbai, India

Un giorno andai a pranzo con un americano che lavorava vicino al mio ufficio. Sono assolutamente certo che ci trovassimo simpatici a vicenda (almeno a me lui stava simpatico) e che il trucco per mantenere viva e costante questa simpatia, fosse il fatto che non eravamo in grado di capirci. Io tentavo di parlargli in un inglese da prima elementare mentre lui rispondeva nel suo meraviglioso italiano fatto di verbi all'infinito e di zero sostantivi. In questo pranzo fatto più di cibo che di grandi discorsi scientifici, riuscii a chiedergli quale fosse il suo libro preferito e lui mi rispose "Shantaram" di Gregory David Roberts. Conoscevo il libro, se non altro per la mole indicibile e lo spazio che occupava (una singola copia) in mezzo agli scaffali delle librerie. Lo avevo sempre osservato da lontano (il libro intendo, non il simpatico [sulla fiducia] americano) ma non mi ero mai sentito particolarmente attratto, non per le dimensioni quanto per l'ambientazione: l'India.

A volte me ne dimentico anche io, ma in India ci sono stato qualche anno fa e non è stato certo un viaggio da sogno. Non per le persone che ho incontrato quanto per l'ambiente. Non mi sono mai sentito veramente a casa o a mio agio nelle strade e tra la gente, come se mi trovassi in un mondo totalmente diverso dal mio, come se fossi in altro pianeta. Probabilmente ero davvero in un altro pianeta e proprio per questo l'India (o le mille indie all'interno dell'India) è un continente che o ami o odi. Io mi riservo di rispendere in una prossima vita; magari l'India merita una seconda possibilità. Comunque, dopo questa ampissima introduzione, passiamo al libro: grazie amico americano che mi hai fatto conoscere Shantaram! Un romanzo meraviglioso, scritto con il cuore e come se fosse il testamento spirituale dell'autore. Shantaram è la storia della vita di Roberts, una parte dell'incredibile vita di Roberts; che nasce in Australia, scappa da una prigione, si ritrova a Bombay, fa mille altre cose fantastiche e alla fine (anche se nel libro non è raccontato), si ritrova nuovamente in prigione in Australia. Nel mezzo ci sono 1200 pagine di racconto, un po' di verità e un po' di fantasia, visto che è stato scritto solo anni dopo che le vicende erano accadute. In mezzo, c'è un uomo che arriva a Bombay senza niente, non solo materialmente ma anche spiritualmente e si ritrova a vivere un viaggio che è una quotidiana crescita personale e spirituale, senza che si nomini mai Dio ma una spiritualità che è filosofia e umanità.

Sarebbe troppo facile dirvi di leggere Shantaram e di farlo perché è un libro bello: vi dico di leggerlo perché potrebbe addirittura diventare il vostro libro del cuore, come per il mio amico americano. Metto subito le mani avanti e vi dico che non è diventato il mio libro preferito, quello credo che sia ancora il Deserto dei Tartari (forse, dipende dai giorni), però vi dico di dare fiducia a questo libro e a voi stessi e provare a leggerlo. Tanto siete ancora in vacanza e vi assicuro che rispetto ai mattoni russi, questo è un romanzetto che si legge in una notte. Una notte molto molto lunga. अलविदा मेरे दोस्त (alavida mere dost, arrivederci amici miei).

lunedì 7 novembre 2016

Carlo Verdone nasce a Roma il 17 novembre del 1950



Ogni tanto decido di staccare la mente e dedicarmi alle più rilassanti ed evanescenti delle lettere: le biografie. Ma non le biografie di grandi eroi del passato, magari ricostruite da scrittori moderni, bensì le biografie di persone in vita. A volte sportivi che raccontano la propria storia ad un giornalista o altrimenti attori, scrittori, cantanti e perché no, anche il buon Rocco Siffredi. Quindi biografie di gente seria, che ha vinto o fatto qualcosa nella vita, non come quel presuntuoso di Icardi, che a 16 anni appena compiuti pubblica un'autobiografia, non capendo sinceramente cosa possa scrivere di interessante, se non a che età è caduto il primo dentino o l'emozione che avrà provato segnando il primo gol nelle giovanili, presumibilmente pochi mesi fa. Per biografie intendo quelle di veri e grandi campioni, che i loro trofei li hanno alzati anni fa e che adesso si raccontano e possono parlare anche di retroscena divertenti e cose che magari mentre erano in attività non avrebbero potuto raccontare senza suscitare ira o imbarazzo di qualcuno. 

Nella categoria dei non sportivi, di recente ho letto l'autobiografia di Carlo Verdone, che lui ha voluto intitolare “La casa sotto i portici” in nome della casa dove è cresciuto, in Lungotevere dei Vallati a Roma (insomma non proprio Morena o Boccea). Confesso che il libro l'ho preso usato e in realtà volevo regalarlo, ma la curiosità è stata troppa e prima di impacchettarlo me lo sono letto. Avevo paura che il libro sarebbe stato un po' banale e avrebbe rovinato l'immagine perfetta che ho di Carlo, ovvero una persona che non solo fa ridere ma che ogni volta che dice qualcosa, si ha la sensazione che abbia detto una cosa intelligente. 

E invece, per mia grande sorpresa, il libro rispecchia esattamente il tipo: non è un banale racconto cronologico di eventi, ma una ricostruzione divertente di fatti, di personaggi, di emozioni. E' lo stesso Verdone che si vede nei suoi film: un ragazzo (oggi uomo) timido e introverso che però è riuscito a fare sempre quello che si è prefissato, mettendoci passione e facendosi aiutare da una bella famiglia che lo ha sostenuto e supportato (e che certo non erano morti di fame!). Ne esce fuori una bella persona, un bel figlio prima e poi un buon genitore e alla fine, nel ricordo della vecchia casa e dei genitori ormai morti, fa anche cadere qualche lacrimuccia (non a me, perché io sono un orco). Insomma, se un giorno voleste distrarvi qualche ora e non pensare a nulla (senza cimentarvi in letture pesanti) e in più bervi anche un po' di gossip di casa Verdone (e quindi casa De Sica, visto che sono imparentati), vi consiglio di leggere “La casa sotto i portici” e rosicare perché sta casa sotto i portici davanti Ponte Sisto, secondo me dev'esse stata proprio 'na gran bella casa. Alla faccia de Torvajanica.

Ps: Visto che ogni volta che scrivo un post su un libro, sembra che ho letto il libro più bello mai scritto, vi dico che questo non è sto capolavoro da storia della letteratura, ma non credo che fosse questo l'intendo di Verdone, quindi godetevi il libro per quello che è e non rompete. Verdone fa l'attore e lo fa pure piuttosto bene. Sulla qualità del libro si può tranquillamente sorvolare. 
Sorriso, rise, risata, come me vie' da ride.

venerdì 7 ottobre 2016

Attenzione, alla fine della lettura del seguente articolo, avrete voglia di mangiare una seada. Forse anche due.

Ci sono quelle città che sogni di vedere per tutta la vita e quelle che mai ti saresti aspettato di visitare e che invece il destino ti ha fatto incontrare. Il mio destino, ad esempio, mi ha fatto conoscere Cagliari, città mitologica che per trent'anni ho osservato su una cartina ma che credevo che lì avrei lasciato per tutto il resto della mia vita. Eppure eccola qua, la capitale della Sardegna, la grande città che a confronto del continente è poca roba ma sull'Isola è una sorta di New York con i ricci di mare buoni. L'ho girata poco è vero ma quel tanto che è bastato per fissare nella mente le piazze, gli scorci, gli odori e qualche spiaggetta niente male, che se ce l'avessimo sul nostro Tirreno, faremmo anche mille chilometri per godercela. 

E quindi, con le memorie cittadine fresche, ho letto con piacere “Metropolis” di Flavio Soriga, un giallo tutto sardo, ambientato per l'appunto nella Cagliari contemporanea. Ci sono i carabinieri, è strapieno di carabinieri, ma va bene, ci devono essere per forza altrimenti chi indagherebbe? E poi c'è l'alta borghesia cagliaritana, quella che fa avanti e indietro tra Londra e gli USA ma non rinuncia alla villa in collina, a due passi dal mare. Poi ci sono i poveracci, quelli che fanno i pastori, quelli che fanno i baristi, quelli che non fanno nulla. La città è raccontata con garbo, l'autore ci porta un po' ovunque, come se ci fossimo seduti sul sedile del passeggero e un Cicerone con l'accento sardo ci portasse in giro per Cagliari. Ovvio che ci sia sangue, che ci siano depistaggi, bugie, lacrime, dubbi, ma quello è il bello del giallo e comunque Soriga non gli da troppo peso, sembra raccontare questa trama non tanto perché appassionato del genere in sé, quanto come scusa per poi raccontare la città. Come dire: vorrei scrivere tanto una bella guida smart su Cagliari ma come faccio a non risultare noioso? Scrivo un bel giallo e lo ambiento in ogni quartiere della città, dalla spiaggia alle periferie più lontane! Non metto in dubbio che possa sbagliarmi ovviamente, magari l'autore è invece un grande appassionato di gialli e anzi, ci teneva a lasciarci con il fiato sospeso fino all'ultima pagina. Ma resto convinto che la trama, in fondo, gli interessasse poco e meglio così sinceramente, perché il giallo non è che sia poi così tanto appassionante mentre la descrizione della città e delle sue atmosfere, ti fa venire voglia di tornarci o di scoprirla per la prima volta. 


Ora mi è venuta l'ispirazione per un giallo ambientato a Trigoria o magari a Torvajanica, che dite? “Quer pasticciaccio brutto de via de Trigoria” oppure “Er mistero der tellinaro ammazzato a mezzanotte”. Votate gente, votate. 

martedì 6 settembre 2016

Questo non è un articolo come tutti gli altri


Per la prima volta in questo blog, squillino le trombe, non vi parlerò di un libro bensì di un fumetto. Il fumetto è Dylan Dog e l’albo, per la precisione, è il numero 74 (novembre 1992) dal titolo: Il lungo addio. Compro Dylan Dog da diversi anni ma mentre prima lo facevo solo in estate, attratto dall’idea di leggermelo sotto l’ombrellone, da qualche tempo è un appuntamento fisso mensile, tanto che ormai mi annovero tra i grandi fan dell'investigatore di Craven Road. Come in tutti i romanzi, come in tutti i fumetti, come in tutti i cartoni animati, ci sono volte in cui la storia piace da impazzire e quelli in cui si resta un po’ delusi. Ci sta. Recentemente ho letto su internet qualche informazione in più sul fumetto e sul suo ideatore, Tiziano Sclavi e ho scoperto che, a detta di molti, l’albo più bello è appunto Il lungo addio, risalente alla bellezza di 24 anni fa! Mosso dalla curiosità l’ho trovato, in ottime condizioni, al solito mercatino dell’usato e colmo d’emozione, l’ho iniziato a sfogliare sul comodo divano di casa. 
Bhé, lo posso dire senza paura di espormi: l’albo è bellissimo e quasi quasi commuovente. Non voglio dire che sia il più bello che abbia mai letto anche perché non ci sono mostri o brividi come in altre storie, ma è senza dubbio bello e emozionante. Se avete letto almeno un “Dylan Dog” nella vostra vita, questo albo non ha niente a cui vedere con gli altri perché non ci sono mostri né vampiri né diavoli. E’ una storia d’amore, forse La Storia d’Amore di Dylan Dog, dove il mostro non ha le fattezze del licantropo ma del tempo che passa e del rimpianto per le scelte che si fanno (o che si potevano fare). Non so che dirvi. Forse lo si può apprezzare meglio se si conosce già il personaggio ma sono sicuro che se anche non aveste mai letto nulla di Dylan Dog, trovereste la storia comunque coinvolgente e introspettiva. Vi domanderete, ma come può un fumetto, un semplice fumetto, suscitare emozione come potrebbe farlo un libro? Può eccome, pensate alla poesia ad esempio, che secondo me è molto simile al fumetto. In poche righe, in pochi versi, può emozionare e racchiudere in tre parole quello che un libro potrebbe non spiegarti in capitoli interi. Per me leggere questo albo è stato come rinnamorarmi ancora di più del personaggio e del fumetto, come se avessi scoperto un lato nuovo e bello di una persona che pensavo di conoscere ed amare già così, ma che è riuscita a sorprendermi ancora. 
Voglio chiudere questo post con un messaggio, forse il primo che provo a lanciare da queste pagine virtuali: leggete i fumetti e non vergognatevene! Che siano italiani, americani o manga non conta, scoprirete un mondo che non immaginavate e vi accorgerete che per amare il genere non è necessario essere un nerd o un emarginato. Che il Lucca Comics sia con voi.

mercoledì 31 agosto 2016

Se questo non è il romanzo più bello mai scritto, poco ci manca.


Qualche anno fa (per motivi che non sto qui ad approfondire se no ci vorrebbero un paio di articoli in più) mi capitò di leggere l’Arte della Guerra di Sun Tzu. Ignoravo prima di allora che genere di libro fosse, ma lo vedevo costantemente presente nelle librerie, soprattutto nella sezione dedicata all’economia, al management e alla crescita di se stessi. Insomma, il reparto dove non leggerei nulla neanche a pagamento. Nonostante il mio ingiustificato snobismo, il libro è in realtà famosissimo perché è stato riciclato, nei millenni, da libro di strategia militare cinese, a libro di strategia per essere il migliore nella vita, negli affari o in tutto quello in cui si voglia eccellere. Scoprii inoltre, che una persona per me di alto profilo, addirittura teneva quel libro sul suo comodino, come ispirazione per il suo lavoro. E a quanto pare la stessa cosa facevano i grandi manager a livello mondiale. Accidenti! Allora mi sono chiesto, qual è il libro del mio comodino? Qual è il libro che posso e devo sfogliare ogni giorno, per avere ispirazione e risposte alle domande della vita?
Fino a qualche giorno fa pensavo potesse essere “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, ma mi sbagliavo. Il libro più bello mai scritto è senza dubbio “I Beati Paoli” di Luigi Natoli. Descrizione: il libro ha più di mille pagine ed è un romanzo a metà tra i Promessi Sposi e Beautiful. E come le soap opera, appunto, è avvincentissimo e ad ogni pagina può accadere (e accade) di tutto, tanto che le mille pagine sembrano volar via in un attimo e ce ne fossero altre mille, si potrebbe continuare a leggere senza indugi. La prima volta che sentii parlare di questo libro ero a Palermo, dove non a caso è ambientato, e la trama mi fu raccontata da un ragazzo che ci aveva addirittura scritto una tesi di laurea. Mi raccontò di questa antica setta leggendaria, che si era data come missione quella di punire le ingiustizie dei nobili e di consolare gli afflitti (spesso poveri contadini o umili artigiani). Mi raccontò della Palermo sotterranea dove essi si muovevano e dei vicoli che ancora oggi portano nomi di personaggi realmente esistiti ed inseriti nel romanzo. Mi disse anche che qualcuno accostava la leggenda di quella setta, alla nascita della mafia in Sicilia, anche se poi Leonardo Sciascia (voglio dire, mica l'ultimo scemo), disse esattamente il contrario, ovvero che la mafia millantò di avere origini dai Beati Paoli, per darsi un'aura positiva e un'origine nobile. Per chi come me ha avuto la fortuna di vedere Palermo e innamorarsene perdutamente, i Beati Paoli è il libro perfetto per immergersi nell’atmosfera ottocentesca della città. I Promessi Sposi? E chi sono? Son sicuro che se a scuola si facesse leggere i Beati Paoli, sarebbe un piacere farsi interrogare e anzi, si andrebbe avanti nei capitoli di spontanea volontà, senza accontentarsi di leggerne uno a settimana. Altro che addio ai monti sorgenti dall’acque.


Forse adesso vi starete chiedendo: ma che c’entra questo libro con il comodino e con gli insegnamenti sulla vita? Effettivamente nulla, a meno che uno non cerchi risposte alle grandi domande dell'umanità, scovandole tra carrozze, duelli di spada, uomini incappucciati e osterie. Però i Beati Paoli è un libro troppo appassionante e come non resistere alla voglia di tenerselo stretto e lasciarlo sul comodino in bella mostra. E poi sarabbe un vero peccato se non lo pubblicizzassi e non ve lo consigliassi con calore. Vi dico però che io il libro l’ho comprato a Palermo (lo ha ripubblicato Sellerio, Dio li benedica), quindi non so se lo vendono anche in altre città. Nel caso, se vi interessa, c’è anche un seguito, un romanzuccio, di altre mille pagine, intitolato “Coriolano della Floresta”. Non me lo voglio comprare su Amazon a prescindere, così ho una scusa per tornare a Palermo e prenderlo lì (alle bancarelle costa di meno e puzza anche un po’ di muffa, così aumenta il fascino e concilia il sonno quando lo lasci sul comodino). Con buona pace di Sun Tzu e del caro Manzoni. Sempre viva il pani ca meusa.

giovedì 4 agosto 2016

Ciao ha tuti è statto belo. Io andare a sciare in giardini vaticani.


Tanti anni fa, nella libreria di casa trovai “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway e me lo lessi. Se mi doveste chiedere di cosa parlasse non me lo ricordo, a parte ovviamente che c’era il mare e presumibilmente un vecchio. Quello che ricordo però è che mi piacque nel complesso e che ebbi un ricordo positivo di questo Hemingway che la scuola poi, mi insegnò essere uno dei più grandi della letteratura. A distanza di anni ho deciso di rimettere alla prova il buon Ernest e ho preso in mano “Addio alle armi”. Sinceramente avevo grande aspettative su questo libro: capirai un mostro sacro di Hemingway, oltretutto ambientato in Italia durante la Grande Guerra, era un mix perfetto per un romanzo da cui mi aspettavo fuochi d’artificio.


E invece? Invece non mi è piaciuto. Ecco, l’ho detto. E’ una bestemmia? Che ne so, che vi devo dire, non mi è piaciuto. Ho provato a leggermi qualche recensione, qualche critica di illustre professore, per capire se ci fosse qualcosa in questo libro che io non avessi colto. Qualcosa in effetti c’era: il tema della grande storia d’amore, il tema dell’antimilitarismo, la prosa asciutta di Hemingway che racconta le cose come sono. Si ok, ma nel complesso possiamo dire che brutto? Tra l’altro il protagonista della storia è lui stesso e i suoi ricordi sul fronte italiano. Lo posso dire? E’ proprio antipatico sto Hemingway ed è pure un mezzo traditore di una mezza patria. Sarò breve: Hemingway è un americano che decide da un giorno all’altro di andare a fare una gita nella Prima Guerra Mondiale. Per farlo, si arruola nell’esercito italiano come autista di ambulanze, vive l’esperienza del fronte e infine (non so se anche nella realtà) la tragica ritirata di Caporetto. Oggi lo definiremmo un “libro inchiesta”, come un grande reportage di guerra, scritto da un inviato al fronte, che ha combattuto fianco a fianco con gli altri soldati e che racconta quello che vede. Ma la verità, almeno secondo me, fu che l’Hemingway del libro non si fuse mai veramente con gli altri soldati. Lui era diverso, era americano, aveva soldi, ogni tanto se ne andava in licenza a Milano e frequentava belle donne. Vero è che venne ferito e si fece mesi in ospedale in convalescenza ma mai perse quella spavalderia. Come di chi sembra vivere un sogno e sa di potersi svegliare quando vuole ed uscire tranquillamente dal vortice, mentre gli altri ci affogheranno dentro.


Poi va bé, alzo le mani, magari questo libro è solo una piccola biografia super romanzata della sua vita e poi Ernest nella vita reale era un grande, ma io giudico il libro e il libro questo racconta. Racconta di un uomo che, ricercato dalla polizia perché scappato dall’esercito e disertore, se ne scappa in Svizzera di notte e trascorre l’inverno in una baita, mentre i suoi ex compagni muoiono sugli altopiani del confine. Ma alla fine quindi, devo giudicare l’opera in sé o l'esperienza di vita? Perché anche l’opera sinceramente, mi sembra si un romanzo piacevole ma niente di che. Caro Erny, sarò pure invidioso della tua vita e della tua gloria, questo lo ammetto, ma posso dire che il tuo tanto noto “Addio alle armi” non mi è piaciuto o rischio di essere fucilato? Al massimo mi rifugio in Vaticano. Amen.

sabato 30 aprile 2016

Studenti, braccianti, operai, il canestro non sorge più ad Est

Il 23 ottobre del 1956 è passato alla storia per essere stato il giorno in cui scoppiò la breve rivoluzione ungherese; rivoluzione che gli ungheresi un po’ fecero contro i loro compaesani, un po’ contro i sovietici. In quel tempo l’Ungheria era governata (con le cattive più che con le buone) da un governo comunista filo sovietico e la gente non è che se la passasse benissimo, soprattutto perché la nazione era reduce anche da una sanguinosa guerra mondiale, in cui era successo quello che era successo e dopo la quale, a distanza di una decina di anni, non è che si vivesse nel benessere come si poteva sperare. Fatto sta che verso le 15:00 di questo 23 ottobre, qualche abitante di Budapest, stanco di sentirsi represso dai propri politici, dai russi e dal destino, si riunì in una piazza di Pest e da lì si riverso’ in protesta per le strade, raccogliendo man mano consensi ma soprattutto raccogliendo sassi: per spaccare vetrine, demolire una enorme statua di Stalin e distruggere tutto quello che poteva anche vagamente sembrare sovietico.

E’ in quel giorno, come in quelli precedenti, che si ambienta il romanzo che ho letto “Sotto il culo della rana, in fondo a una miniera di carbone” di Tibor Fischer. Il libro narra delle avventure di Pataki e Gyuri, due amici tirati su durante la guerra mondiale, adolescenti tra difficoltà del post e quasi adulti in una Budapest isolata dal mondo e preda della polizia del partito, che tutto vedeva e tutti puniva (a casaccio e senza colpe). I poveri protagonisti ci provano in tutti i modi a vivere una vita normale: chi gioca a basket, chi esce con le ragazze, chi sogna di fuggire oltre confine, chi cerca in tutti i modi di evitare il servizio militare. Ma la realtà che li circonda è più forte e più amara di qualsiasi ambizione, anche quella di essere semplicemente liberi di scegliere il proprio destino. A Fischer faccio i complimenti per l’ironia e per alcune battute niente male anche se a volte, l’ordine dei capitoli non è chiaro: prima si racconta il passato, poi il futuro, poi un po’ meno passato, poi il presente e poi ancora il passato passato. Alcuni capitoli scorrono via piacevoli, in altri si fa fatica a capire di chi si sta parlando; se i protagonisti siano sempre Pataki e Gyuri o si parli del padre di uno, del nonno dell'altro, dello zio del cognato del cugino di un altro ancora. Comunque nel complesso, il libro è carino, si legge con piacere e si impara qualcosa sulla storia che non fa mai male.

Forse vi starete chiedendo il senso di questo titolo: sembra che sia un modo di dire
ungherese quando si vuol fare capire che ci si trova davvero in una brutta situazione, forse nella più brutta delle situazioni. Voglio dire, chi di noi sarebbe felice di trovarsi in una ridente miniera di carbone, oltre tutto sotto il sedere di una simpatica rana umidosa e scivolosa? Il titolo stesso è la vetrina di quello che sarà poi il romanzo: pervaso da un umorismo tagliente ma oggettivo, perfetto per raccontare un paese in cui la retorica comunista parlava di grandi progressi e speranze avverate ma dove la vita reale e quotidiana era invece ben diversa. Secondo me, il vero obiettivo del libro (che poi era l'esordio letterario di Ficher, quindi nessuno nasce imparato se proprio non vi piacerà), è quello di sdrammatizzare un evento e un periodo terribile del suo paese. Sdrammatizzare e forse ricordare quel periodo per quello che era: surreale. E quando quello che ci è intorno è surreale, quando tutto è una tragicommedia, quando ogni diritto aquisito diventa un peccato mortale, allora è giusto vivere la vita come viene, emozionarsi per piccole conquiste, inventarsi una squadra di basket per sfuggire al lavoro di fabbrica. Tutto è concesso, anche stappare una bottiglia di champagne, conservata per anni, il giorno della morte di Stalin. Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest.

sabato 27 febbraio 2016

Il più grande Homo Tirchius del Mercatino dell'usato



Quello che state leggendo ora, è più o meno il decimo tentativo di cominciare questo post e trovare il giusto incipit per raccontare il libro che sto per raccontare. Non ve ne fregherà nulla ma, per come scrivo io, l'incipit è fondamentale, poiché dietro ogni post non c'è uno schema in cui so già di preciso cosa scriverò e come lo scriverò, bensì una serie righe scritte di getto, in cui parola dopo parola decido quale sia l'aspetto che più mi è rimasto del libro e di conseguenza ne parlo. Quindi, se le prime righe del post non mi piacciono, non ha senso andare avanti, altrimenti mi basterebbe mettere l'immagine della copertina e dirvi: "5 stellette su 5, leggetelo perché è top".

Allora mi chiedo, possibile che per "Il più grande uomo scimmia del Pleistocene" di Roy Lewis, non ci sia un incipit che vada bene? Voglio dire, mi avesse fatto schifo capirei, ma invece è davvero un romanzetto piacevole, per carità molto più romanzetto storichetto che grande romanzo della letteratura contemporanea, ma pur sempre un piacevole diversivo. Voglio ridire, fosse capitatomi tra le mani per sbaglio o mi fosse stato imposto di leggerlo, avrei capito il disgusto verso un possibile post, ma assolutamente no, erano anni che osservavo quella copertina, che leggevo quel titolo e pensavo: "chissà di cosa parlerà sto libro?". Quindi meravigliatevi con me, come è possibile che non riesca a trovare l'ispirazione per questo accidenti di incipit? Comunque ormai siamo in ballo e balliamo, proviamoci.


Immaginate di trovarvi nudi, soli nel bel mezzo di una foresta sconosciuta, abbiate una fame terribile, sia inverno e sopratutto vi sentiate osservati da decine di occhi che vi scrutano nell'ombra. Non sembra decisamente il preludio ad un weekend romantico. Ecco come mi immagino la vita dei nostri antenati, che è vero che non si sono ritrovati all'improvviso in mezzo ad una foresta ma è anche vero che ci sono nati e che dovettero combattere per la vita e poi per una evoluzione nella quale, non era scritto da nessuna parte che l'uomo sarebbe riuscito a farsi grande e a sopravvivere alle altre specie. Tranquilli, il romanzo è per l'appunto un romanzo, non un saggio, quindi non ci saranno tediose descrizioni su come si scheggiano le pietre o su come si cucinano i castori giurassici o le zebre giganti del Congo Antico. Il romanzo è ambientato in un'era lontana ma i protagonisti sembrano usciti da una fiction nostrana, immersi in una vita fatta di famiglia, di lavoro, di studio, solo che in un mondo leggermente più ostile del nostro. Non so quanto questo post possa avervi attratto verso il libro, quello che posso dirvi è che non mi sono affatto pentito di averlo comprato, anche se ammetto, ho sempre evitato di farlo in libreria e ho dovuto aspettare di trovarlo al Mercatino dell'usato, alla docile cifra di € 1,99 (se fosse stato € 2,00 col cazzo che lo prendevo, oh signori supremi del marketing). Saluti dall'Era Cenozoica.


domenica 21 febbraio 2016

The first Erri De Luca of my life


Qual è il vostro scrittore preferito? Il mio, anzi i miei, sono Milan Kundera e Bruce Chatwin (almeno finché non ne scoprirò altri altrettanto speciali). Entrambi, come immaginerete, sono stranieri. Curioso, perché se ci pensate, amiamo tanto scrittori stranieri ma raramente ci capita di leggerli nella versione originale. Voglio dire, immaginate di leggere “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” in inglese: come potrà mai avvicinarsi alla versione originale? Gli amici inglesi potranno senz'altro entrare nelle atmosfere romane del libro ma non entreranno mai nella vera essenza delle parole. Mi capita spesso di pensare, ad esempio per Bruce Chatwin, come sarebbe leggerlo in inglese, se non sarebbe molto più intenso o se invece, il traduttore italiano non sia stato talmente bravo, da trasmettere nella nostra lingua, le sottigliezze che Chatwin voleva dare al suo pubblico. 

Ma aimé, il mio inglese non mi permette di spingermi oltre un “Alice nel paese delle meraviglie” per le elementari, così riverso la mia attenzione agli autori italiani, ai quali per altro, potrei fare i complimenti dal vivo, nel caso li incontrassi casualmente al mercato. Uno a cui farei senza dubbio i complimenti è Erri De Luca, del quale non entro in merito riguardo appartenenze politiche o battaglie personali, ma solo per quello che scrive nei libri. Non lo avevo mai letto, finché questo Natale, il buon Babbo, mi ha portato “Il peso della farfalla”. Il libro è arrivato dal camino il 24 notte e il 25 pomeriggio era già in libreria, nella sezione dei libri letti. Erri (permettimi di darti del tu maestro), racconta un storia di montagna, in cui natura e uomo si fondono, alla ricerca del proprio essere e nella lotta estrema per la sopravvivenza. 
Ho detto tutto e non ho detto niente ma credetemi, la trama conta poco. Si potrebbe parlare di Alpi come di Lampedusa, di un cacciatore come di un pescatore, quello che conta è come si raccontano le atmosfere, come si entra nei personaggi e li si delinea con poche parole, ma chiare e senza fronzoli. Tante volte ho usato questi termini per descrivere un libro ma stavolta è davvero difficile raccontare cosa mi ha suscitato leggere De Luca. Non so se anche negli altri milioni di libri che ha pubblicato, il testo scorra via così lieve, ma vi assicuro che questo sembra più una chiacchierata informale, che un libro. La sua prosa è poesia e se mi capita di incotrare Erri mentre compro il radicchio, glielo dico chiaro e tondo, con occhi di giovanile ammirazione. Chissà se tradotto in inglese, tutta questa poesia possa rimanere. Da parte mia, anche solo imitarlo in italiano, sarebbe un grande traguardo. Erri, mi passi quel pompelmo per favore?

domenica 14 febbraio 2016

A San Valentino regala un libro. Però buttati su Alberto Angela che è meglio.



Un giorno decisi che era tempo di approfondire la storia di Roma antica, così comprai un bel librone che me la riassumesse e che mi facesse tornare alla memoria tutti quei nomi di re ed imperatori che troppo velocemente al liceo avevo studiato. Lessi dei Gracchi e di Cesare, di Romolo e di Augusto, di Adriano e di Costantino. E poi, relegato in una paginetta, in un periodo per Roma in cui si susseguivano ammazzamenti ed incoronamenti, trovai Eliogabalo. Sesto Vario Avito Bassiano, per gli amici Eliogabalo, era nato a Roma (almeno così dice Wikipedia), dalla dinastia dei Severi ma aveva origini siriane, in particolare della città Emesa, oggi conosciuta come Homs, non molto lontano dalla tristemente nota Palmira, patrimonio dell'Unesco, ora preda dei saccheggi dell'isis e dei sui seguaci, probabilmente non amanti dell'archeologia e della bellezza in generale.

Eliogabalo, nonostante il piccolo spazio sul libro, non fu un imperatore come gli altri. Per carità, tutti avevano le loro turbe, le loro manie, i loro pazzi progetti, ma Eligabalo, che regnò dal 218 al 222 d.C., li batteva tutti. Ebbe varie mogli e anche qualche marito, tanto per restare emancipato al punto giusto, e lo scopo del suo breve regno (e breve vita) fu quello di sfruttare la sua carica per portare a Roma il culto della sua città d'origine, una sorta di adorazione del sole, con annesso pezzo di meteorite conservato in tempio sacrissimo. I romani non erano certo digiuni di dei particolari e di esaltati esaltatori ma l'idea di far scalare la loro gerarchia di dee e dei, ad un pezzo di pietra, non andò giù a molti (più che altro i senatori, che con Eliogabalo persero il potere). L'adorazione di questa pietra, inoltre, portava come accessorio, tutta una serie di riti a sfondo sessuale, in cui Eliogabalo, degno sacerdote, eccelleva, interessato più che altro ad accoppiarsi e a farsi accoppiare, che a governare il suo impero.

Nella mia sete di torbido e gossip archeologico, ho provato a capirne di più sul morigerato imperatore e ho letto “Eliogabalo” di Antonin Artaud, libro che spassionatamente non consiglio, né per approfondire la storia romana né per leggerlo a mo' di fiaba della buonanotte. Artaud sembra voler, più che raccontarci Eliogabalo, quasi farsi possedere dal suo spirito e scrivere di getto tutto quello che gli passa per testa, presentando il suo pupillo come un anarchico ante-litteram. Anarchico di se stesso più che per il popolo. Che Artaud non sarebbe stato per me, il Piero Angela della situazione, lo avrei forse dovuto capire dalla dedica del libro: “ai mani d'Apollonio di Tiana, all'anarchia e alla guerra, agli Antenati, agli Eroi del senso antico e ai mani dei Grandi Morti”. Bé caro Antonin, proprio bene bene non dovevi stare, degno biografo di degno imperatore.

Questa mia dunque, non è tanto per pubblicizzarvi Artaud, che non metto in dubbio sarà stato un maestro e un grande scrittore, ma per spronarvi a leggere qualcosa in più su Roma (o sulla vostra città). Quale soddisfazione maggiore sarò per voi, girare per il centro e riconoscere monumenti e nomi di imperatori sui cartelli delle vie? Non tutti i protagonisti saranno fighi come Adriano o come Cesare, ma mal che vada, avrete scoperto qualcosa in più sulla storia della vostra città che è, in fondo, la storia di chi siete oggi e da dove venite. Ave lungotevere bloccato, automobilisti te salutant.

giovedì 14 gennaio 2016

Metti una sera, a cena, a Trigoria.

29 anni nella stessa casa e decine di libri a tua disposizione, esposti in bella mostra in libreria. Non li hai comprati tu, provengono da ere passate, quando tu ancora non esistevi e i tuoi genitori compravano libri per il piacere di leggerli e in più, con il piacere di riempire librerie, in una casa nuova di zecca e da battezzare con un pò di cultura anni 80. Quei libri cominci a leggerli, a 13 anni o giù di lì, ne leggi uno due tre, li leggi praticamente tutti. Praticamente. Perché ci sono quelli che proprio non ti ispirano, quelli che magari hai cominciato decine di volte ma che hai sempre mollato dopo poche pagine. L'ombra delle colline di Giovanni Arpino è uno di quei libri. 29 anni e poi altri 2, e stavolta torni a cena come "ospite" e ti presenti con largo anticipo, quindi ti metti in poltrona e non volendo vedere la Tv, opti per accendere un libro. Ecco di nuovo tra le mani l'ombra delle colline.

Cominci a leggere e riesci finalmente a superare quelle pagine iniziali che non ti ispiravano ed ecco che il libro addirittura di intriga, ti coinvolge. Te lo porti a casa e lo leggi con calma. C'è tempo per riportarlo. Hai visto mai fosse un bel libro. Poi, tanto perché adesso ci sono gli smartphone e le informazioni ce le hai a portata di mano, scopri che questo libro è il simpatico Premio Strega del 1964. Me cojoni. Adesso ho capito perché mi piaceva! Qui lo dico e qui lo nego: ho letto diversi Premi Strega e mi sono quasi tutti piaciuti, ergo, il Premio sarà truccato, sarà preda degli sponsor, sarà da raccomandati, sarà quello che vi pare, ma chi lo vince vuol dire che ha scritto un bel libro. Chapeau! Di cosa parla questo? Ci sono due storie parallele: quella del protagonista da ragazzo e quella del protagonista adulto. Il primo è un giovane partigiano del cuneese, libero e pieno di speranze. Il secondo è un ultratrentenne piemontese che vive a Roma e che si accontenta di un tranquillo lavoro d'ufficio, insomma, un borghesuccio. Il primo è un bambino cresciuto sotto il fascimo e la guerra, che vive la resistenza da adolescente e ne vuole essere protagonista. Il secondo, è un ragazzo che ha raggiunto una stabilità, almeno per chi lo vedesse da fuori, ma dentro è inquieto, infelice, incapace di sentirsi realizzato.

Sarà un viaggio a farlo scuotere, forse per sempre, un viaggio verso casa, verso il Piemonte. Un viaggio in compagnia di una donna che rappresenta il suo alterego femminile: insoddisfatta anche lei, preda di un passato triste, di un presente amorfo e di un futuro incerto. Questo viaggio e forse questa compagnia, aiuterà il protagonista a realizzare che la vita è troppo breve, per inseguire una felicità di cartone e rinunciare a quello che ti dice l'istinto e il calore del sangue. Non sappiamo cosa accadrà dopo ma capiamo da questo, che lo scrittore ha voluto dare una speranza al suo personaggio e questo basta per renderceli simpatici entrambi. Detto questo, sono sempre più convinto che il Piemonte sia una terra da scoprire. Me lo devo segnare nella lista dei viaggi da fare, rigorosamente con uno zaino pieno di libri. Torino è stata e resterà granata.