venerdì 31 maggio 2013

Padre nostro che sei elettronico, sia santificato il tuo 01010101010101

Fino a qualche tempo fa ero uno dei più ferventi oppositori degli eReader e di tutto quello che non fosse un profumatissimo e accarezzantissimo libro di carta. Non avevo alcun dubbio sulla bellezza che si celava dietro lo scorrere le righe di un testo tenendo tra le dita le pagine grezze, o scrivere pensieri in cima o in calce, o aprire il libro con delicatezza o piegandone le pagine a metà per lasciare il segno. Insomma, da quando è mondo è mondo, il libro è sempre stato il libro e niente e nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea. Poi, dopo aver trascorso mesi a parlar male degli eReader senza averne mai visto uno, ho deciso che forse valeva la pena provarlo e dopo mezzo minuto tra le mani, ho deciso di comprarlo.
In venti per dieci centimetri di tavoletta, ora posso tenere anche 100 libri e in più, non solo non disturba la vista come pensavo (almeno quello non retroilluminato) ma è anche bello da vedere. Con una batteria praticamente semi eterna. Insomma, ho sputato per mesi su un oggetto che poi, alla prova dei fatti, è risultato piacermi da impazzire.

L’euforia per il nuovo giocattolo è durata qualche giorno, dopo di che sono tornato in una libreria e ho comprato un libro. Un libro vero. Ho smesso di leggere quello che avevo iniziato sull’eReader e ho cominciato quello nuovo. Punto. Il libro di cui vi voglio parlare oggi non è nessuno dei due citati prima, ma è “A volte ritorno” di John Niven, il primo e fin’ora unico libro che ho letto sull’eReader. Diciamo subito che il romanzo di Nives è divertente, originale e coinvolgente. Il classico libro da leggere se avete una vita di foschi pensieri e la sera volete staccare il cervello e far lavorare solo un poco la fantasia, giusto quel tanto che serve per creare nella mente le immagini dei personaggi.

Dio torna da una breve vacanza (cinque secoli terrestri) e al suo arrivo in Paradiso si accorge che la Terra che ha lasciato non è più la stessa. L’ultima cosa che lui si ricordava era il Rinascimento, ora trova solo guerre, genocidi e un’umanità senza più speranze né sogni. Così decide di rimandare Gesù sulla Terra, nonostante il figlio non abbia alcuna voglia di scendere di nuovo tra gli uomini. Gesù, giocoforza obbediente, stavolta raccoglierà i suoi nuovi “apostoli” tra gli sbandati degli Stati Uniti e proprio lì parteciperà ad un talent show musicale, per riuscire ad apparire in TV e diffondere a più persone possibile il suo nuovo verbo: “Fate i bravi”. Nonostante i presupposti, il libro non risulta né blasfemo né particolarmente offensivo. Le opinioni sulla Chiesa e sull'umanità che il Gesù di Nives ha, sono praticamente le stesse che ci potrebbe dare un qualsiasi sconosciuto per strada e quindi il libro risulta divertente e davvero alla portata di tutti, senza nessuna pretesa di dare risposte o consigli a nessuno (se non vi fidate, al massimo, non leggetelo!).

La lettura di “A volte ritorno” e la vita dell’eReader, è durata il tempo di un viaggio andata e ritorno in treno tra Roma e Firenze (però su un lentissimo intercity, ci tengo a specificarlo). Dopo di che, come già detto, il rettangolino nero è rimasto a guardarmi nel ripiano della libreria, in attesa che io lo accenda di nuovo, o quanto meno, gli tolga gentilmente un po’ di polvere dallo schermo.

martedì 28 maggio 2013

California here we come


Volo Ryanair Salonicco - Roma. Maggio del 2012. Quattro giorni di Grecia: mare, sole, ottimo pesce e la conferma che il Mediterraneo sforna gente della stessa razza, a prescindere da dove nasci. Italiani, spagnoli e greci sono indistinguibili se presi singolarmente. Quello che fin’ora mi era stato solo detto, ora posso confermarlo. Salgo le scalette dell’aereo e la hostess italiana mi saluta sorridendo. Butto l’occhio su un ripiano sulla destra e vedo un libro: “Sulla strada” di Jack Kerouac. Incredibile. E’ la stessa edizione che ho io. Me l’hanno regalato proprio qualche settimana fa e l’ho letto in una settimana. Forzandomi per fermarmi ogni tanto, così da gustarmelo meglio. Faccio un commento ad alta voce sul libro e senza nemmeno voler attirare l’attenzione della hostess, in effetti lo faccio. Le racconto, tra una valigia posizionata nello scompartimento e una cintura allacciata, che il libro mi è piaciuto un sacco e che fa bene a leggerselo. La hostess sembra soddisfatta ed io le evito di concludere la mia recensione involontaria.
Ho omesso che “Sulla strada” è si interessante, ma tanto tanto lento e soprattutto ripetitivo. Tanto ripetitivo. Kerouac scrive il manoscritto del suo libro nel 1951. L’opera vedrà la pubblicazione solo 6 anni dopo, nel 1957. Un motivo ci dovrà pur essere. La storia è semplice: il libro racconta una serie di viaggi, compiuti nell’arco di pochi anni, del protagonista (nonché autore stesso) attraverso gli Stati Uniti. Droga, alcool, sesso, ritorno alla vita naturale, immensi spazi americani da percorrere a tutta velocità in macchina. “Sulla strada” diventa presto il manifesto della beat generation, ovvero quella generazione americana, metà anni 50, che rifiuta i formalismi e i falsi miti della vita quotidiana, fatta di lavoro, rispettabilità, cura del giardinetto, patriottica guerra di Corea. La risposta a tutto questo è la fuga e la corsa verso sensazioni sempre nuove e più intense, immancabilmente condite da una bella dose di anfetamine. Il risultato di anni (o spesso anche solo mesi), di questa vita a perdere, porta a due possibili conseguenze. O la cancellazione totale di ogni capacità di pensiero e ragione, o la presa di coscienza dell’impossibilità di una vita così e la triste rassegnazione all’omologazione e al ritorno all'ordinario.
Non svelo quale sarà il destino del protagonista ma confermo la mia idea che questo libro può piacervi da impazzire o portarvi ad implodere di noia dopo venti pagine. Come sempre, la verità forse sta nel mezzo. E’ un libro che va letto perché è un caposaldo della letteratura mondiale e perché racconta una pagina di storia americana che è ancora poco conosciuta. Ma non è detto che un grande libro debba essere per forza anche bello, e questo ne è l’esempio. “Sulla strada” è un libro che leggerete una volta ed una volta sola, ma qualcosa di certo vi lascerà. Quanto meno, vi avrà fatto compagnia tra un autostop e l’altro mentre andate verso il Pacifico.
 

domenica 19 maggio 2013

Eravamo noi e Mario Balotelli in cammino


Tra i generi letterari più amati (quanto meno da me), spicca senz’altro il “romanzo storico”, ovvero la ripropozione di fatti, personaggi, eventi, realmente accaduti, raccontati in un romanzo e fusi tra loro con un pizzico di fantasia e qualche cosa di inventato. Il problema del romanzo storico però, è che per esser definito tale, deve trattare di eventi accaduti almeno qualche decennio fa (per esempio oggi si potrebbe già scrivere un bel romanzo storico, che so, sulle Olimpiadi di Roma del 1960). Quando invece si racconta di eventi di una decina d’anni fa, come si può definire il romanzo?
E’ il caso di “Erano solo ragazzi in cammino” dell’americano Dave Eggers, che racconta la biblica avventura di Valentino Achak Deng, un rifugiato politico sudanese, fuggito una quarantina di volte alla morte ed ora responsabile di una fondazione americana, impegnata proprio nell’aiutare i rifugiati sudanesi, in Africa e nel mondo. Se andate su Wikipedia e cercate “Guerra del Darfur”, troverete informazioni sui tre anni di guerra civile (2003-2006) e potrete ricostruire la storia politica, economica e umanitaria del conflitto. Quello che non troverete è invece la vera storia, le vere storie, delle migliaia di morti, dispersi e rifugiati, che quella guerra l’hanno vissuta quotidianamente e che questo libro cerca di raccontare. “Cerca” è in realtà un termine ingiusto, bisognerebbe dire “riesce” a raccontare. Perché le quasi 600 pagine del libro sono la sintesi perfetta di tanti racconti di vite che l’autore ha condensato e ha romanzato in un’opera che trasmette le stesse sensazioni e le stesse emozioni vissute realmente dai protagonisti.
Erano solo ragazzi in cammino” non potrebbe essere titolo più evocativo. La nuda e cruda esperienza di un gruppo composto da migliaia di bambini che partono da un villaggio del Sud del Sudan e per scappare dalla guerra e dalla morte si incamminano verso l’Etiopia, attraverso foreste, leoni, soldati, fame vera e notti nere senza speranza. Poi, per chi è riuscito a sopravvivere, la vita nei campi profughi, ogni giorno che si ripete sempre uguale, la miseria di un pasto al giorno ma l’orgoglio e la fierezza di cercare anche lì di crearsi una vita, la propria indipendenza, alimentare un sogno, anche il più piccolo.

Leggi il libro, più o meno tutto di un fiato e poi ti fai un bel esamino di coscienza e realizzi che non solo fai parte della specie umana e quindi anche per questo dovresti sentirti un po’ una merda, ma soprattutto ti vien voglia di fare qualcosa per queste persone, ma a quel punto ti senti ancora più una merda, perché sai già che non lo farai. Infine, guardi la copertina del libro e hai l’impressione che la figura che hai lì davanti, assomigli un sacco a Mario Balotelli. E così realizzi che nella vita, in fondo, è solo una questione di fortuna. Qualsiasi sia la tua storia e qualsiasi cosa tu abbia vissuto o superato per arrivare ad essere quello che sei (un calciatore o il responsabile di una fondazione umanitaria), quel che conta è che tu sappia sfruttare la tua occasione ed essere felice di quello che hai. Perché in fondo, tra quei ragazzi in cammino, è stato solo un fortuito caso che non ci fossimo anche noi.

martedì 14 maggio 2013

Sangue, neve e corna: vi presento il dottor Zivago


Quand’è stata l’ultima volta che avete letto un libro e poi, presi da irresistibile curiosità, siete andati a vedere il film che ne era stato ricavato? Non vi sforzate troppo, non mi interessa sapere di quale libro si trattava, mi interessa sapere che lo avete fatto. Perché lo avete fatto. E’ l’assioma del lettore. E allora alzate la mano e ditemi quante volte avete visto il film e siete stati presi da un senso di profonda delusione? Tante, troppe. Chissà, forse perché quell’attore non centrava nulla con l’immagine che voi avevate dato al protagonista, o forse perché nel film mancavano degli episodi che per voi, nel libro, assumevano un senso che non poteva essere omesso.
La prima ed unica volta (visto che non ho tendenze suicide) che ho letto “Il Dottor Zivago” di Boris Pasternak (До́ктор Жива́го, qualora leggeste il russo), ho provato anch’io l'irresistibile voglia di vedere il film, spinto dalla curiosità non solo di scoprire quali volti erano stati dati ai circa nove milioni di personaggi del libro, ma anche per capirci qualche cosa del libro stesso, visto che, delle settecento pagine che lo compongono, delle prime cento non c’avevo capito nulla (troppi personaggi in cerca d’autore). A dirla tutta, il film del Dottor Zivago, se avete prima letto il libro, è una delusione mostruosa e contiene tutte le caratteristiche negative suddette, soprattutto la malsana idea di non trasportare in pellicola interi capitoli del libro, che del libro, a mio avviso, ne sono l’essenza.
Partendo quindi dal presupposto che il film non va visto, il libro resta un vero e proprio capolavoro, non solo per la ricostruzione storico/romanzata di vent’anni di storia russa, ma per la maestria con la quale Pasternak descrive gli ambienti e i paesaggi dove i personaggi si muovono. La trama è semplice: Jurij Zivago, che da grande farà il medico (come il titolo suggerisce), nel frattempo che è piccolo viene adottato da una famiglia, famiglia nella quale c’è una bambina, Tonja, che anni dopo diventerà felicemente moglie di Zivago. Quando scoppia la Grande Guerra, Zivago, che intanto è diventato medico, va al fronte e lì incontra l’infermiera Lara, della quale, a sorpresa, s’innamora. La vita continua e Zivago torna dalla moglie mentre Lara sposa Pasa, un giovane rivoluzionario, bruciato dalla passione politica e dalla passione per lei. Peccato che però, quando Tonja va a Parigi per fuggire alla miseria, casualmente Zivago rincontri Lara e sempre casualmente riscoppi la passione, alla faccia della moglie in pensiero a Parigi e del rivoluzionario di belle speranze. Tra gelo siberiano e lupi affamati, non svelo il finale ma chiudo raccontando un piccolo aneddoto.
Il Dottor Zivago” fu scritto in russo ma venne pubblicato per la prima volta in italiano, da Feltrinelli, nel 1957. Pasternak,vista la traccia del romanzo palesemente contro la rivoluzione comunista, non poté pubblicare in patria, e riuscì a spedire il manoscritto a Feltrinelli, che ne intuì il potenziale e che lo pubblicò immediatamente (nonostante il partito comunista italiano avesse storto il naso). Il libro fu un successo e l’anno successivo Pasternak vinse il Nobel per la letteratura. Dovette però scegliere. Andare a ritirare il premio avrebbe significato gloria ma anche non poter più rientrare in patria, dalla quale sarebbe stato esiliato. Pasternak scelse di restare in Russia e dopo soli due anni morì, tra l’indifferenza del governo sovietico e la sileziosa ammirazione del resto del mondo.

lunedì 13 maggio 2013

L'eterno ritorno, l'eterno ritorno, l'eterno ritorno, l'eterno ritorno, l'eterno ritorno...


“L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?”

Ci sono voluti diversi anni, ma alla fine, anche io ho letto “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera. Ci sono voluti diversi anni si, ma da cosa? Da quella volta in cui sentii nominare il libro per la prima volta. Era il giorno dell’orale della maturità e la ragazza interrogata prima di me portò a far vedere ai professori, tutti i libri che aveva letto per prepararsi. Li posizionò bel belli sul tavolo e cominciò a raccontare del perché li avesse scelti e di quale legame, ognuno, avesse con l’argomento che trattava nella tesina. Fu così che mentre lei guadagna minuti preziosi, riempiendo il suo esame di fiumi di parole, io adocchiai questo libro dal titolo enigmatico e promisi di leggerlo, un giorno, quando il destino me lo avrebbe riproposto. A distanza di dieci anni, il destino ha preso le forme della Biblioteca di Spinaceto e di una mattina in cui, con soli tre euro, ho portato a casa non solo il suddetto libro ma anche un calendario, riposto seduta stante in un cassetto, visto il marzo inoltrato in cui ormai mi trovavo.

“L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?”

Di per sé, la storia che viene raccontata nel libro è semplice. Ci sono quattro protagonisti: due sono sposati, la terza è l’amante dello sposo, il quarto è l’amante dell’amante dello sposo. In realtà ci sarebbe anche un quinto personaggio, ovvero il cane degli sposi, che però non è abbastanza interessante, in quanto a sua volta, non ha amanti né scheletri nell’armadio da piazzare in prima pagina. Intorno ai personaggi, Kundera dipinge due cose: la prima è la Praga pre e post invasione sovietica del 68, l’altra è una serie di riflessioni filosofiche sulla vita, l’amore, il senso stesso della storia e dell’uomo, che lasciano (almeno con me è stato così) senza parole. Prendete un libro di storia della filosofia ed uno di psicologia, agitateli e quello che troverete, versando il tutto nel bicchiere, sarà “L’insostenibile leggera dell’essere”, un’opera che può esaltarti e farti esplodere d’amore in una pagina e deprimerti ed istigarti al suicidio in quella successiva.

“L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?”

L’idea che ho avuto di questo libro è che sia perfetto per tutte le età, non solo nel senso che può leggerlo chiunque (anche chi di solito non legge mai, anzi soprattutto chi di solito non legge mai), ma che andrebbe riletto ad intervalli di dieci anni, perché ogni riflessione che viene fatta tra le righe, può emozionare e colpire chi la legge, in maniera diversa, a seconda di quale sia l’esperienza di vita che si ha. Per cui, se anche non aveste alcuna intenzione di leggere il libro (o di rileggerlo, nel caso non ve lo ricordaste), nessuna problema, avrete tempo per ripensarci e farlo, anche a novantanove anni. Chissà, magari per il centenario della Primavera di Praga.

“L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?”

venerdì 10 maggio 2013

Attenzione, la lettura di questo libro è consigliata ad un pubblico


Qualche giorno fa ho fatto un sogno. Ero in uno spogliatoio maschile e, in accappatoio, ascoltavo i discorsi che facevano gli altri uomini nella stanza. Tra i vari discorsi, che a dire il vero non ricordo, solo uno in particolare mi aveva colpito, tanto che, a sogno finito, ripetevo nella mente le parole ascoltate. Due signori, più o meno sulla cinquantina (che nel sogno sapevo essere sposati), parlavano di donne e uno diceva all’altro: “Quando ero fidanzato, i primi tempi era una scocciatura perché dovevo sempre stare attento a tutto e dovevo sempre vestirmi bene. Col passare del tempo poi, le cose sono cambiate, tanto che abbiamo smesso di badare a certe cose e ad un certo punto, ci siamo abituati a tutto. Anche all’alito pesante. Non era più importante nemmeno che ci lavassimo i denti, tanto ci volevamo bene e sopportavamo qualsiasi cosa. Quando una donna smette di lavarsi i denti, vuol dire che ti ama”.
Riflessioni sul senso di questo sogno a parte, e riflessioni su quanto per me sia importante lavarsi i denti anche al centotrentaquattresimo anno di matrimonio, tutto questo mi ha fatto venire in mente un libro che, smettendo di scrivere “riflessioni a parte”, a me è piaciuto tantissimo: “Il Re dell’Avana” del cubano Pedro Juan Gutiérrez. Gutiérrez, che oggi è docente universitario nonché poeta nonché scultore, si avvicinò alla scrittura dopo una svariata serie di lavori, che spaziavano dal gelataio all’istruttore di kayak. Nei suoi libri, il tema principale è, neanche a dirlo, Cuba e i suoi abitanti, descritti e raccontati senza veli (da intendersi sia in senso psicologico che nel senso di vestiti che si levano). Il “Re dell’Avana” è quindi una sorta di romanzo soft porno, dove il protagonista non fa assolutamente nulla da mattina a sera, se non cercare di procurarsi qualcosa da mangiare (senza grande inventiva e voglia) e fare all’amore. Fare all’amore con qualsiasi cosa gli passi davanti. E’ inutile dire che in molti casi, l’alito del partner, non rappresenti un vincolo stringente alla realizzazione delle avventure erotiche del protagonista.
In tutto questo, vi apparirà sotto gli occhi una Cuba come non ve l'aspettate, lontana dalle immagini da cartolina e molto più concreta. Vera. Esattamente la Cuba che non vorreste mai vedere perché correreste il rischio di non raccontarla. Seppur il libro non mi abbia ispirato voglia di prendere il primo volo per l’Avana (ma in effetti non credo fossero queste le reali intenzioni dell’autore), la lettura è caldamente consigliata, soprattutto sotto l’ombrellone, visto che il romanzo è piacevole, divertente e con un finale a sorpresa, che io, per ovvie ragioni, e ovviamente riflessioni a parte, evito di svelarvi.

domenica 5 maggio 2013

Il "Club dei NarrAutori" ovvero, avrete qualcosa da fare nei prossimi venerdì!


Conosco Danilo Cipollini da diversi anni. Credo che però, più o meno, ci saremo visti in tutto una decina di volte, o giù di lì. La questione, come tutte le cose, ha un aspetto positivo ed uno negativo. Quello negativo (del non vederci spesso) è che Danilo è un tipo simpatico, alla mano, con il quale difficilmente esci e non trascorri una serata piacevole, tra una birra e qualche aneddoto sul suo passato, di solito erotico. L’aspetto positivo, invece, è che ogni volta che incontro Danilo, mi sommerge di parole e mi racconta di nuove idee per farsi conoscere, progetti di vita, libri da scrivere, persone da incontrare, universi da esplorare. Io ascolto e ascolto e poi realizzo, con invidia, che per realizzare anche solo la metà di quello che immagina lui, a me ci vorrebbero almeno due vite, e in queste due vite, dovrei dormire comunque tre ore a notte.
Ma Danilo non è un tipo che chiacchiera per chiacchierare. Lui, va detto, fa. E stavolta, devo ammetterlo, l’ha fatta anche molto bella. Danilo e il suo amico Jacopo Ratini (cantautore e scrittore) hanno inventato il “Club dei NarrAutori”, che altro non è che una serie di serate evento, nelle quali perfetti sconosciuti e dilettanti allo sbaraglio, si esibiscono in un reading letterario, e hanno cinque minuti per leggere al pubblico (e ad una giuria), la loro opera. Racconto o poesia che sia. Lo scorso venerdì, sono stato invitato a seguire l’ottava, delle dieci serate programmate per questa stagione. Mi sono ritrovato anche a far parte della giuria popolare e ho potuto apprezzare, con una birra in mano e la penna per i voti, che il livello di chi sale sul palco, tutto è tranne che di dilettanti allo sbaraglio.
In questa città, come in tutto il Paese, c’è un sottobosco di amanti della letteratura ed aspiranti scrittori, che cresce sempre di più e sempre di più vuole trovare spazi dove mostrarsi, far conoscere le proprie opere, incontrare persone che la pensavo e “la sognano” come loro. Il “Club dei NarrAutori” è tutto questo, un piccolo mondo dove ognuno è a casa sua e dove tutti vogliono fare soprattutto una cosa: divertirsi. La prossima serata sarà venerdì 17 maggio, alle ore 22:00, al KO di Via degli Ernici a San Lorenzo (la stradina è piccola, non potete non vederlo!).
Andateci, perché a prescindere che vi piaccia o meno scrivere, che siate troppo snob per San Lorenzo, che il venerdì per voi è serata salsa, che schifiate i poeti concettuali e gli scrittori falliti con un bicchiere in mano, che leggiate questo post e a pelle sentiate il bisogno di cancellarlo per sempre dai vostri ricordi, vi assicuro che vi divertirete e che di certo, passerete una bella serata, lontana da qualsiasi cosa abbiate mai fatto e molto molto vicina a quello che io chiamo: la ricerca della felicità.

mercoledì 1 maggio 2013

Jonathan Livingston e il gatto che non gli insegnò a volare


C’era una volta un bambino che frequentava le scuole elementari. Nell’estate tra la seconda e la terza, la maestra diede un compito molto semplice. Scegliere un libro dalla libreria di casa, leggerlo e farci un riassunto. Questo bambino trascorse l’estate in maniera spensierata: perse la vista di fronte allo schermo di un computer, andò in villeggiatura sul litorale laziale, giocò a pallone tra auto parcheggiate e tralicci dell’alta tensione, guardò i cartoni animati e mai, nemmeno per un secondo, pensò di fermarsi un attimo a leggere un libro.
Arrivò la vigilia del primo giorno di scuola. Il bambino, preso da un improvviso, quanto tardivo, senso di responsabilità, decise di scegliere un libro e leggerlo, nel disperato, quanto anch’esso tardivo, tentativo di non presentarsi il giorno dopo a mani vuote. Scelse il libro più piccolo che trovò nella libreria, lo sfogliò, poi lo posò sulla scrivania e promise a se stesso che lo avrebbe letto la sera, prima di andare a dormire. Quando il bambino si svegliò, nel cuore della notte, si rese conto che erano le due passate e che forse, ma non è che fosse troppo convinto, era arrivato il momento di leggersi quel libro. Sgattaiolò dal letto e si chiuse nello studio. Lesse le prime tre pagine con grande enfasi, dopo di che, capì che forse non era il caso di soffermarsi sui dettagli e cominciò a leggere una riga si ed una no. Poi passò ad una si e tre no. In fine, decise di leggere solo l’ultimo capitolo, lasciando all’immaginazione tutti gli altri. Dopo circa due ore chiuse il libro e soddisfatto, tornò quatto quatto dentro il letto.
Per la cronaca, il riassunto non lo scrisse mai e il giorno dopo, come tutti gli altri successivi, nessuna maestra gli chiese più nulla di quel riassunto. Sempre per la cronaca, quel libricino che tanto poco colpì la fantasia del bambino era “Il gabbiano Jonathan Livingston” (Jonathan Livingston Seagull) di Richard Bach. Libro pubblicato nel 1970 e che dopo due anni, era già stato stampato in un milione di copie.
A distanza di tanti anni, quel bambino (ora una quarantina di centimetri più alto) decise di rileggere il libro. Quello stesso libro (con le pagine un po’ ingiallite) che a otto anni proprio non era riuscito ad apprezzare. Stavolta lo lesse tutto d'un fiato, e in poco meno di un’ora. Poi tenne tra le mani il libricino, accarezzò con le dita la copertina e chiuse gli occhi, tornando con la mente a quella notte di venti anni prima.
Prese un foglio bianco e cominciò a scrivere il riassunto. Anche in questo caso, seppur nobile, il gesto non poté che apparirgli piuttosto tardivo.