sabato 15 dicembre 2018

E’ un po’ che non leggo ma posso spiegarvi…


Lo scorso mese mi sono accorto, per altro casualmente, di essermi abbonato ad Amazon Prime. Non era mia intenzione ma credo che sia accaduto perché una volta attivato il mese gratuito mi sono scordato di cancellare la carta di credito e quindi sono rimasto fregato. Lasciando da parte le maledizioni che ho mandato ad Amazon, ho deciso di collegare la mia smart Tv a internet (cosa che non avevo mai fatto prima) e capire cosa avesse da offrirmi Amazon demmerda. L’occhio mi è subito caduto sulle serie, in particolare su una che non sentivo nominare da un po’: Lost. Su Amazon tiodioesplodi, ci sono tutte e 6 le serie, il che mi ha stuzzicato non poco visto che non guardo mai serie Tv, figuriamoci se ne iniziassi una sapendo che è incompleta. Tutto questo nasce dal fatto, credo ormai lo abbiate intuito, che io Lost non lo avevo mai visto. Mai, nemmeno un episodio. Quale occasione migliore per recuperare il terreno perso e poter trovare un nuovo argomento di conversazione con gli amici, seppur con una dozzina di anni di ritardo. Per altro, e qui chiudo l’anteprima, in un episodio uno dei protagonisti gioca a tennis con la magliettina dell’Italia. Considerando che Lost è uscito negli USA nel 2004/2005, quella puntata è stata premonitrice della vittoria del Mondiale tedesco (che con il tennis non centra un cavolo ma va be). 
Con questo articolo volevo annunciare al mondo che ho appena finito di vedere le 25 puntate della prima serie e che ho deciso che brucerò le mie poche vacanze natalizie per vedermi le altre 6.269 puntate che mancano alla fine. Quali sono le prime considerazioni? Innanzi tutto che Lost è molto più simile a un Beautiful che a un Mister Robot, nel senso che sono talmente tante puntate che ne dovresti vedere due al giorno per arrivare alla fine e non esserti dimenticato l’inizio. Secondo: Lost è un pochino lento, diciamoci la verità, ma è sacrosanto! Come si possono girare milioni di episodi pensando di offrire colpi di scena continui? Per cui ci sono quelle puntate abbastanza inutili in cui speri solo che inquadrino quel gran pezzo di donna di Kate, che almeno ti rallegra l’animo e ti fa passare i 40 minuti di episodio. Che bello! Chi è che vuole parlare con me di Lost??? Si lo so che sono un pochino in ritardo e che voi non vi ricordate nulla ma fate finta di starmi ad ascoltare e annuite. Per esempio: qual è il vostro personaggio preferito? Il mio è quel pelatone adorabile di John Locke ma devo dire che anche quel coattone scontroso di Sawyer mi ha conquistato. Ora, conoscendo la mia solita fortuna dell’innamorarmi di personaggi che dopo pochi secondi muoiono, sono certo che nella prossima serie saranno entrambi impiccati a una palma o meglio ancora cucinati dalla lava di un vulcano segreto. 
Che altro aggiungere? Che forse avrei dovuto scrivere questo articolo dopo l'ultima puntata, quando avrei potuto davvero esprimere un parere finale su Lost, ma che posso farci? Può darsi che all’ultima puntata ci arrivi tra altri 12 anni e che nel frattempo mi sia scordato quello che ho visto finora. Dunque è meglio mettere tutto nero su bianco. A proposito di anni 2000, che dite, dopo Lost mi metto a vedere Grey's Anatomy o meglio tornare a leggere qualche libro?  


lunedì 15 ottobre 2018

Qui l'autore vuol farci riflettere sul fatto che Berlusconi ha governato per tutti gli anni della sua adolescenza. "Sua" dell'autore.


L’ultima volta che sono stato a un corso di scrittura creativa, sono capitato vicino a una signora di una sessantina d’anni. All’inizio non ci siamo parlati (a parte il “ciao ciao” di convenevoli) ma poi mi sono reso conto che avevamo una cosa in comune: il gusto. Quando gli altri partecipanti leggevano un racconto scritto sul momento, se una cosa non era piaciuta a me non piaceva a lei e viceversa, quello che a lei piaceva, risultava piacevole anche a me. Con questi presupposti la conversazione, nel proseguire della giornata, è stata più attiva finché lei non mi ha chiesto se avessi mai letto qualcosa di Paolo Di Paolo, confidandomi prima ancora che rispondessi, che era il marito di sua figlia (forse era il fidanzato, non ricordo bene). Io Paolo Di Paolo lo avevo sentito nominare ma non avevo mai letto nulla, anzi ero convinto fosse abbondantemente in là con l’età. Però facendomi due rapidi conti, il Di Paolo non poteva essere poi così anziano, a meno che la figlia della signora non avesse gusti particolari e non si fosse sposata uno più grande di lei. Paolo Di Paolo, ve lo svelo, è del 1983, quindi ha solo un anno più me.

Paolo Di Paolo è famoso e io no. Paolo Di Paolo scrive e io no. Paolo Di Paolo immagino viaggi per l’Italia per presentare i suoi libri e io al massimo viaggio per l’Italia per veder perdere la Virtus Roma. Ho deciso di leggere “Dove eravate tutti”, scegliendo il libro non per la copertina o per la trama ma semplicemente perché era in offerta al mercatino dell’usato. Cercando di annullare il mio senso di invidia nei confronti dell’autore (invidia ingiustificata visto che io non ci provo nemmeno a scrivere), mi sono immerso nel libricino. E porca miseria, Paolo Di Paolo scrive anche bene. Non solo, ha anche quella sottile ironia che mi piace molto. Lo dico subito, il libro non mi è rimasto nel cuore, anzi, parte bene ma delude un poco alla fine, ma quel che conta non è il racconto quanto la sensazione di aver letto il libro di uno con cui avrei potuto andare in classe insieme o a nuoto o a catechismo, o ovunque il destino ci avrebbe fatto incontrare. Siamo nati a pochi mesi di distanza, ergo, Di Paolo potrei essere io!

Rosicate a parte: bravo Paoletto. Bravo anche perché il libro che ho letto si basa secondo me su fatti di vita vissuta (almeno in parte) e quindi Paolé... hai praticamente pubblicato un libro limitandoti a scrivere una sorta di diario e invece di lasciarlo in un cassetto lo hai fatto uscire in libreria. Chapeau, anche se come detto, il tuo “Dove eravate tutti” parte bene ma poi si perde. Che vuol dire che si perde? Che secondo me potevi scrivere altre cinquanta pagine e sviluppare un po’ i temi che hai raccontato prima e invece sembra che a un certo punto ti sei stancato e hai detto “Va bene ok, il libro lo chiudiamo così e passiamo ad altro”. Le ultime venti pagine sembrano più un racconto alla Fabio Volo (non conosco i racconti di Fabio Volo ma me li voglio immaginare banali e per ventenni rincoglioniti). Comunque tanto di cappello, io sto qui a scrivere una recensioncina che leggeranno in due e tu sei ovunque sei, a goderti i tuoi libri stampati e immagino, anche qualche euro guadagnato. Zitto e muto Marco! Prendi e porta a casa e impara, che forse con un pizzico di impegno in più, anche le stronzate che scrivi su Facebook potrebbero diventare qualcosa. E sti cavoli se ne verrà fuori un libro alla Fabio Volo. 

giovedì 13 settembre 2018

Maledetto Dino Buzzati, come ti sei permesso di farmi piangere come un vitello?


Un giorno, forse in prima o seconda superiore, presi in mano “Il deserto dei Tartari”. Era un libro che stava nella libreria di mio padre da chissà quanti anni e io ero in un periodo in cui cominciavo a leggere quasi tutto quello che mi capitava sotto tiro. Quella volta mi capitò qualcosa che mi sconvolse. Quello non era un libro normale, era un romanzo di una tristezza infinita e leggerlo a 14 anni, quando il tuo umore passa in pochi minuti dall’euforico al depresso, fece si che quelle righe lasciassero segni indelebili sulla roccia dei miei ricordi. Per tanti anni ho sempre detto, dunque, che il mio libro preferito era “Il deserto dei Tartari” e tanto ne ero sicuro che anche avendolo letto una sola volta, vent’anni prima, l’idea non poteva essere cambiata. Oggi, a distanza di altre centinaia di libri letti, ho ripreso in mano “Il deserto dei Tartari”. Non vi nego, perché è mia intenzione farvi leggere questo libro, che alla fine ho pianto. Ok non vi aspettate una cosa eclatante tipo Cascata delle Marmore ma una lacrimuccia è spuntata.


Perché? Perché è davvero il libro più triste del mondo. Come ve lo racconto in poche righe? E’ la storia di Giovanni Drogo, soldato appena diplomatosi all’accademia, che ventenne, viene assegnato alla Fortezza Bastiani, al confine montuoso tra il suo Paese e un immaginario Stato del Nord. Oltre il confine, già in territorio nemico, c’è questo famoso deserto, detto dei Tartari perché un tempo ci scorazzavano queste tribù. Drogo alla sola prima vista della Fortezza prova l’irrefrenabile impulso di scappare via, addirittura congedarsi con disonore, piuttosto che passare un solo minuto in quel nulla, lontano dagli amici e da una qualsivoglia cantina per bere un bicchiere di vino.


Vado, resto, vado, resto, alla fine Drogo rimarrà nella Fortezza più di quanto non avrebbe pensato e poi STOP altrimenti vi racconto troppo. Ma Buzzati è un maestro perché in un romanzo di nemmeno duecento pagine, riesce a condensare una vita intera e a raccontare ogni stagione dell’anima, ogni emozione, ogni sentimento, come altri autori non sarebbero capaci di fare in mille pagine. Forse però, adesso che ci rifletto, “Il deserto dei Tartari” potrebbe non piacervi. In effetti è un pochino lento, introspettivo, angosciante, non è detto che faccia al caso vostro. Per me è il mio libro preferito e amen, non si discute, ma devo ammettere che a voi potrebbe non piacere e potreste smettere di leggerlo anche dopo poche righe. Dovete correre questo rischio però. Dovete leggerlo e provarci. Non cercate di finirlo in una sera o leggerlo velocemente per sapere cosa succede. Godetevelo come se stesse bevendo un fantastico vino che voleste gustare con calma. Leggete ogni singola parola, ogni virgola, perché Buzzati è un maestro proprio perché riesce a esprimere un concetto con esattamente le sillabe necessarie. Se vi piacerà, già saprete di aver trovato il libro che avete sempre cercato e mai nulla sarà come prima. Altro che questi stupidi articoletti su un blog.

giovedì 23 agosto 2018

Ero l'unico al mondo a non aver ancora letto questo libro. Vero? Vero??




Prima o poi doveva succedere: ho letto “I pilastri della terra”! Si si, lo so, lo avete letto anche voi e si, mi dispiace, avrei dovuto leggerlo già da una decina d’anni e non l’avevo ancora fatto. Ma che vi devo dire? Lo conoscono tutti ed è scritto da Ken Follett che praticamente è più famoso del Papa: no non fa per me, non riesco a leggere un libro così famoso. Troppo scontato. Ma in fondo è estate e sotto l’ombrellone non si possono mica leggere mattoni psico-metafisico-economico-impegnati. In spiaggia voglio andare con qualcosa di leggero e cosa c’è di meglio di un romanzetto di mille pagine? D’accordo, visto che siamo in vena di confessioni allora diciamolo: “I pilastri della terra” è bello. Ok concediamoglielo, un pochino più di bello: è molto bello. Che poi l’aggettivo “bello” è anche troppo generico, affermiamo allora che “I pilastri della terra” è appassionante. E’ coinvolgente. E’ emozionante. “I pilastri della terra” non è un libro: è un soap opera. Sembra una sceneggiatura per un filmone o meglio ancora per una serie, di quelle che su Netflix (che mi vanto di non avere) farebbero il tutto esaurito.

Ma che la scrivo a fare una recensione sui pilastri? Che vuoi scrivere? E’ praticamente perfetto! Tu apri il libro, leggi le prime dieci pagine e ti rendi conto che non potrai più lasciarlo. Anzi, meno male che sono mille pagine e quindi è impossibile leggerle tutte di un fiato, altrimenti ci si potrebbe chiudere in camera e finirlo in una notte. Caro Follett, che vuoi che ti dica? Hai pubblicato decine di libri ma ti sarebbe bastato solo questo per entrare nella leggenda. Però aspetta, una cosa te la voglio dire: mi piaci ancor di più perché non hai messo troppi personaggi. Nelle prime pagine, si incontrano subito una decina di persone che potrebbero essere tutte protagoniste e lì allora sei costretto a fermarti e studiarteli bene, altrimenti se poi si va avanti e questi personaggi si consolidano, rischi di perderti la loro evoluzione. Ma se di personaggi ce ne fossero venti o trenta, non sarebbe più un romanzo, diventerebbe la Bibbia e bisognerebbe istituire un corso di laurea solo per capirlo. Invece Follett, grazie al cielo, di personaggi ne porta avanti una decina e questo basta. Facciamo in tempo a conoscerli, a vederli crescere, a farceli stare simpatici o antipatici e a disperarci se poi muoiono o tradiscono le nostre aspettative (tranquilli, non vi dico chi muore).
Ripeto, sto allungando il brodo perché davvero mi vergogno a dire altro sul libro: come faccio a muovere anche solo una piccola critica se io di questo romanzo avrei scritto a mala pena la prima riga? Aspettate, non mi ricordo se vi ho detto di cosa parla il romanzo. Va bè ma tanto lo avete letto tutti, quindi ve lo ricordate no? No? Volete dire che non lo avete letto tutti tutti tutti?. Davvero?

Vergogna! Bestie di Satana, che il cielo vi maledica! Correte subito a comprarlo e divoratevelo perché di romanzi così ne leggerete tre o quattro nella vita, non di più. E no, a questo punto non vi dico nulla. Non vi dico di cosa parla, dove è ambientato, chi è simpatico e chi è antipatico. Scusali Ken, perdonali, non sanno quello che fanno. Bestie! Leggete subito “I pilastri della terra” e che Dio abbia pietà di voi.

martedì 21 agosto 2018

Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu. E basta.











Per la serie – finalmente per una volta non ci parli di libri ambientati in Sardegna – eccomi pronto a scrivervi di “Un anno sull’Altipiano”, di un certo Emilio Lussu, credo originario di Trento.



Essendo il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale (novembre 1918), non potrebbe esserci occasione migliore per parlare di un libro ambientato proprio durante questa guerra. Per l’esattezza tra il giugno del 1916 e il luglio del 1917. Per la cronaca, l’Italia non se la passava benissimo in quel momento: solo per dire, ad ottobre del 1917 ci sarebbe stata la famosa battaglia di Caporetto, con 13.000 morti, 30.000 ferite e 265.000 prigionieri, solo nel fronte italiano.


Il romanzo (che non è proprio un romanzo ma una sorta di diario scritto ad anni di distanza), racconta la vita di trincea dalla parte degli italiani, che sull’Altipiano di Asiago (e non solo), si fronteggiavano alle truppe dell’Impero Austroungarico. Nel testo, tutto è vero e crudo, niente è filtrato e la bravura di Lussu sta nel fatto di descrivere la tragedia della guerra e della morte, raccontando davvero tutto e riuscendo anche a far sorridere in qualche occasione. Tra una pagina e l’altra, si passa dalle ferite cruente, al furto di salumi, dai generali innamorati di se stessi, alle notti al gelo a bere alcol per riscaldarsi. Uno degli “aneddoti” che mi ha più colpito è stata la descrizione dello stato d’animo dei soldati, che dalle postazioni di montagna, osservavano la valle e in lontananza vedevano le città del Veneto sotto l’Altipiano. Loro erano rintanati in quei buchi scavati nella roccia mentre in quei paesi lontani, la vita scorreva come sempre, seppur nelle ristrettezze della guerra. Quei paesi, da lassù, sembravano così vicini che si poteva quasi toccarli con un dito. Chissà cosa stavano facendo in quel momento gli abitanti, loro che potevano uscire, cantare, amare, senza la paura di non vedere il sole del giorno dopo.

Che vi devo dire, battute per chiudere l’articolo con una risata non me ne vengono. Una riflessione però voglio farla: si parla tanto (nei libri e in TV) della Seconda Guerra Mondiale e del Fascismo, si racconta cosa sia accaduto e si spera che non accada più, giustamente. Ma la Seconda Guerra Mondiale è stata una guerra in cui l’Italia ha perso e perso male e del ventennio fascista, sono state certamente più le ombre che le luci. La Prima Guerra Mondiale invece no. E’ stata una vittoria, sofferta e "mutilata", ma una vittoria. E allora, invece di piangerci sempre un po’ addosso o pensare solo ad autoflagellarci per le nostre colpe (vere e presunte), ogni tanto potremmo guardare anche al famoso 15/18 e ricordarci che prima dell’8 settembre 1943, eravamo stati vincitori di qualcosa e che del passato si possono ricordare anche gli aspetti positivi, con un pizzico pizzico di orgoglio per la storia nazionale che non guasterebbe affatto.





venerdì 20 luglio 2018

Spengo la TV e non vi ascolto più.


Dave Eggers è un grande. E’ un grande per come scrive, intendo. Non so se leggerò tutti i suoi libri ma credo di si. Magari uno ogni due anni, con calma, per godermi questi suoi romanzi leggeri, che definirei da “sotto l’ombrellone”. Dave Eggers mi sta simpatico. Lo stimo ovviamente, come stimo chiunque sappia scrivere come fa lui. Dave Eggers mi fa sorridere eppure non lo conosco; non so nulla di lui come persona. Non so se sia democratico o repubblicano, se sia anarchico, se gli piaccia il nero o il bianco, il sale o il pepe, la Coca Cola o la Pepsi. La verità è che non me ne frega nulla di cosa pensi perché a me interessano i suoi romanzi. Potrei scoprire che la pensiamo in modo completamente opposto rispetto qualsiasi tema ma la cosa non mi scalfirebbe, perché a me interessa che sappia scrivere bene e che mi diverta: il compito che chiedo a un artista è questo. Eppure sembra che in queste ultime settimane in Italia, qualsiasi cosa si faccia di artistico, musicale, letterario, debba per forza schierarsi da una parte o dall’altra di una riga. Sembra che non si possa simpatizzare per un partito politico senza essere tacciati di razzismo e sembra che non si possa difendere un ideale senza essere accusati di buonismo. Ma forse non è un caso che molti scrittori o pittori vengano apprezzati solo dopo molti anni, quando il contesto sociale e politico è cambiato e non sono più letti o visti sotto la luce dei loro contemporanei.

Comunque se vi interessa, stavolta ho letto “Eroi della frontiera”, un romanzo che racconta la storia di Josie, una madre di famiglia che a un certo punto, prende i due figli piccoli e parte per un viaggio in solitaria in Alaska. Ovviamente dietro ci sono vari accadimenti che non sto qui a scrivervi però posso dire che rispetto agli altri libri di Eggers questo mi è piaciuto un po' meno. Sarà che quando un uomo scrive di una donna e vuole entrare nei suoi pensieri, non so mai quanto possano essere veri e aderenti alla realtà. Secondo me (ma non è detto che sbagli) un uomo dovrebbe raccontare di cosa passa per la mente di un uomo e viceversa, se volessi capire davvero cosa pensano le donne, dovrei leggere un romanzo scritto da una donna. Ma ripeto, magari mi sbaglio e la verità è che gli uomini analizzano meglio le donne e le donne conoscono più a fondo gli uomini di quanto io possa immaginare.


Un merito però voglio darlo a questo libro: è quasi impossibile capire come finirà. Quando ti rendi conto che mancano ormai dieci pagine, provi a capire cosa cavolo succederà a questa madre e a questi bambini ma non riesci a capirlo. Per quello che hai letto prima, potrebbero morire tutti, potrebbero vivere tutti felici e contenti, potrebbero tornare a casa o rimanere per sempre in Alaska, potrebbe accadere qualsiasi cosa forse anche un orso che irrompa nel loro camper e se li divori. Insomma, potrebbe accadere di tutto e quindi quelle ultime dieci pagine te le divori letteralmente (come un orso affamato) perché devi sapere come andrà a finire. Come finirà? Per saperlo, non resta che andare il libreria e scoprirlo. E non c’è bisogno di arrivare fino a Anchorage.

sabato 7 luglio 2018

Una musica può fare, Salvarti sull'orlo del precipizio, Quello che la musica può fare, Salvarti sull'orlo del precipizio, Non ci si può lamentare.


L’estate romana è strapiena di eventi: il difficile è trovare quello che ci piace, in un oceano di opportunità. Anche perché non è che uno può uscire tutte le sere per andare a teatro, cinema, rassegne, concerti, feste della birra, interviste dal vivo ecc… Diventerebbe un secondo lavoro. E quanti di voi vorrebbero un secondo lavoro?

Fatto sta che a inizio giugno sono andato al “Festival delle Letterature” alla Basilica di Massenzio, per una serata in cui un po’ di autori leggevano brani inediti dei loro libri. Tra questi c’era anche un americano di Detroit, un certo Michael Zadoorian, che non avevo mai sentito nominare. Ha fatto un bel discorso in inglese (grazie al cielo con sottotitoli in italiano proiettati su uno schermo) e ha raccontato di quanto per lui sia importante scrivere e quanto sia stato male nei periodi in cui non aveva l’ispirazione. E’ scattata subito la simpatia a pelle, soprattutto perché si vedeva che non capiva una parola di italiano e sembrava catapultato in un mondo di alieni, dove comunque lui, si stava muovendo con una certa disinvoltura (solo dopo ho scoperto che non solo questo Zadoorian è piuttosto conosciuto ma anche che non era certo la prima volta che veniva in Italia).

Quella sera mi sono comprato il suo ultimo libro “Beautiful Music”, edito dalla piccola casa editrice Marcos y Marcos (piccola rispetto a Mondadori o Feltrinelli). Perché ho scelto quel libro? Perché parlava di musica e di come la musica aveva salvato il protagonista del romanzo: un ragazzino appena entrato in un liceo di Detroit agli inizio degli anni 70. Bene, che vi devo dire: stupendo! Lo so che è un aggettivo che uso spesso per descrivere un libro ma questa è l’occasione giusta per rispolverarlo. Non è solo un romanzo in cui è impossibile non immedesimarsi con il giovane protagonista e trovarlo simpatico, ma è anche un viaggio nella musica rock di inizio anni 70, quando le piccole radio locali cominciavano a passare le prime note di gente che poi sarebbe diventata un pochino famosa: Deep Purple, Black Sabbath, Led Zeppelin, Pink Floyd, Beatles, Rolling Stones, Alice Cooper e cento altri. E’ un viaggio nell’adolescenza difficile di un bambino bianco, che si ritrova suo malgrado, coinvolto in scontri razziali con altri studenti di colore e che trema alla sola idea di compiere 18 anni e dover partire per il Vietnam. Un bambino che non sa suonare uno strumento ma che riconosce una canzone dalla prima nota, neanche fosse l’Uomo Gatto di Sarabanda. Un bambino solitario, per cui la musica in adolescenza, ha rappresentato l’unica boa a cui aggrapparsi, per non affogare in un mondo che corre troppo forte per uno che ha solo 14 anni.

Ps: ogni tanto comprate anche qualche libro di piccola e media editoria. Ok costano un pochino di più ma avrete l’opportunità di scoprire autori che altrimenti non avrebbero mai avuto spazio tra gli scaffali delle librerie.

venerdì 22 giugno 2018

Questo lo facevo anche io. Forse.


Ho letto il racconto più breve del mondo e mi è piaciuto. Volete sapere di cosa parlo? Ecco:

“Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí”

Che sostanzialmente vuol dire: “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”.

L’opera mastodontica è stata partorita da Augusto Monterroso, scrittore del Guatemala ed è considerata, a torto o a ragione (chi sono io per giudicarlo?) il racconto più breve del mondo. Ma può davvero essere considerato un racconto? Se ci pensate si perché in fondo, non solo la frase così com’è ha un senso ma lascia spazio anche a diverse interpretazioni che mettono in moto il cervello e che ti danno la sensazione di aver letto qualcosa di molto più lungo e articolato.

Qual è la vostra interpretazione della frase? Su internet ne girano due in particolare:

  • Il protagonista è sveglio e si trova accanto a un dinosauro. Per non vederlo più si addormenta ma quando si sveglia, il dinosauro è ancora lì;
  • Il protagonista è sveglio e non ci sono dinosauri. Si addormenta e sogna dinosauri. Quando si sveglia, il dinosauro del sogno è ancora lì.

Poi c’è la mia interpretazione, che è triste e strappalacrime, ma che vi scrivo:

  • Quando il protagonista si svegliò, il dinosauro (che in realtà è un tumore/malattia) è ancora lì (come se il protagonista avesse sognato di star bene e invece non è così).

Però voglio citare una quarta interpretazione, secondo me la più bella, che ha dato una persona che conosco:

  • E se il protagonista fosse il dinosauro stesso? Pensateci: “quando si svegliò (il dinosauro protagonista), il dinosauro (lui) era ancora lì. Potremmo leggerla anche così: quando il dinosauro si svegliò (stava sognando di stare alle Maldive), lui era ancora lì (purtroppo si è risvegliato nella sua umile casa di Marina di Ardea e ha rosicato).

Che poi dove sta scritto che più un racconto è lungo, meglio è? D’altronde viviamo in un mondo in cui Twitter ti costringe a esprimere concetti in pochi caratteri e prima che esistesse Whatsapp, con gli SMS dovevi essere super-mega-iper conciso, se non volevi spendere una fortuna. Quante volte andiamo in libreria e scegliamo un libro solo perché è enorme, supponendo che sarà bellissimo? Per carità, “Zivago” è lungo lungo lungo ed è figo figo figo ma non sempre lunghezza fa rima con bellezza. Adesso vi lascio perché il dinosauro mi ha appena telefonato: pare che ad Ardea stasera ci sia la sagra della tellina e vorrebbe che lo accompagnassi a farsi una mangiata.




 

domenica 3 giugno 2018

Cammina, cammina, cammina, cammina, cammina, cammina. Stop.


C’è chi prenderebbe la macchina anche per andare al bar sotto casa e chi a piedi, farebbe il giro del mondo. C’è chi prende sempre l’autostrada perché si fa prima e chi preferisce le stradine di campagna perché ogni volta si scopre qualcosa di nuovo. Poi ci sono io che sono una via di mezzo: abito in un posto dove devo per forza prendere la macchina per fare la spesa ma dove a piedi, potrei fare chilometri di spiaggia, tra case abusive e affascinanti alberi scheletrici piegati dal vento.
Poi c’è chi, come Paolo Rumiz, ha provato a farci capire che camminare è la cosa più bella del mondo e che il mondo, appunto, lo conosceremmo molto meglio se invece di vederlo sempre dal finestrino di una macchina, lo attraversassimo con uno zaino e con scarpe comode. Paolo Rumiz è un giornalista con la passione per la scoperta e per le passeggiate e si è messo in testa, a un certo punto, di farsi a piedi la Via Appia. Ma non la via Appia moderna bensì quella antica: la prima strada d’Europa, la Regina Viarium.

E l’ha fatto, mortacci sua (detto con simpatia). E’ partito da Roma, zona Porta Capena ed è arrivato a Brindisi, attraversando fossi, boschi, recinti, campi arsi dal sole, montagne, paesi, discariche, pur di arrivare alla fine della via e farsi un meritato bagno nell’Adriatico. Perché dovete assolutamente leggervi questo libro? I motivi sono molti, il primo che mi viene in mente però è che fa venire una voglia irrefrenabile di camminare. Voi ce l’avete mai una voglia irrefrenabile di camminare? Io sinceramente si, ma quasi mai riesco a sfogarla. Forse perché alla fine, non saprei dove andare di preciso. Cosa racconta in più questo libro? Racconta la storia di una via, la Via con l’iniziale maiuscola, ma non parla di come sia stata costruita bensì di come è conservata oggi, cioè male. Rumiz fa una scelta coraggiosa: vuole percorrere la via nel suo tratto originale e fino a Capua tutto sommato ci riesce. Poi arrivano le montagne: Benevento, la provincia di Avellino, le ultime curve prima di arrivare in Puglia, dove tutto è pianura e il caldo è cocente. Ed è proprio in Puglia che Rumiz si rende conto che l’Appia è più disastrata, anzi non esiste proprio più. Fa impressione ad un certo punto, il fatto che l’Appia antica non possa più essere percorsa perché finisce dentro l’Ilva di Taranto! 

Ma il libro non è solo questo: è anche un caleidoscopio di colori, di odori, di sapori. E’ la vita che pervade tutte le cittadine attraversate e le persone, spesso archeologi, che l’autore ha incontro e che gli hanno permesso di scoprire angoli nascosti, che spesso nemmeno chi ci abita di fronte conosce. Non avete idea di quanta voglia mi sia venuta di camminare e di mangiare e di ascoltare e di esplorare. Sarà perché Rumiz ti fa venire voglia o sarà soprattutto perché è appena iniziato giugno e l’estate bussa prepotentemente alle porte del cuore. Tutte le strade portano a Roma: torniamo a percorrerle a piedi, queste meravigliose strade. 

domenica 6 maggio 2018

Vienna è la città che mi ha più sorpreso: pensavo fosse nulla di che, invece è bellissima. Andateci.

Lo confesso: ho avuto la crisi del lettore! Esiste la crisi dello scrittore, quando per mesi non si riesce a scrivere nulla e esiste la crisi del lettore, quando per settimane (mesi è un pò troppo), non si riesce a leggere nulla. A casa ho decine di libri che non ho ancora letto ma nessuno in queste settimane mi aveva particolarmente ispirato, finché non mi sono imposto di mettermi davanti alla libreria e sceglierne uno; uno che fosse breve e che riancendesse quella scintilla in me. Insomma, dovevo sbloccarmi.

Ed eccomi qui a raccontarvi brevemente di "La Cripta dei Cappuccini" di Joseph Roth. Diciamolo subito: carino. Come scelta che mi sono imposto, mi è andata bene. Il libro è ambientato prima, durante e dopo la Prima Guerra Mondiale e racconta le vicende di un giovane rampollo della Vienna bene, che vive sulla propria pelle, la crisi e la caduta del secolare Impero Asburgico (che con la sconfitta sarà smembrato). Questo libro in realtà è il proseguo ideale di un altro libro di Roth "La marcia di Radetzky" che avevo iniziato qualche anno fa ma che non avevo mai finito (troppo lungo e non scorrevole come questo).


La "cripta" racconta le vicende di Francesco Trotta, ultimo erede della famiglia che ha dato i natali a un eroe nazionale austriaco, che salvò la vita all'imperatore durante una battaglia. Nonostante questo tale Francesco sia un perdigiorno che non ha mai lavorato un solo secondo in vita sua, il personaggio risulta incredibilmente simpatico (almeno a me) se non altro perché ha la lucidatà e la sincerità di ammettere d'essere appunto un perdigiorno scansafatiche. Allo scoppio della Grande Guerra, Francesco e i suoi altri ricchi amici perdigiorno, festeggiano e si preparano a partire per la battaglia con l'entuasiasmo di chi sta per vivere un qualcosa che finalmente romperà la noia dei loro giorni viennesi. Come è immagine, la guerra qualcosa romperà ma non certo la noia. Molti moriranno sul campo ma Francesco, dopo essere caduto prigioniero ed essere finito addirittura in Siberia, tornerà a casa, in una Vienna sconfitta e depressa. Intorno a questi fatti ce ne sono altri, come ad esempio il matrimonio di Francesco con una ragazza che diventerà poi, una strana artista/attrice (mezza lesbica) o una madre (del ragazzo) ultimo baluardo di una mentalità ottocentesca che la guerra farà definitivamente tramontare. In mezzo, tanti altri personaggi secondari che però Roth racconta e descrive molto bene e che rendono il libro, che di per sé non tratta certo di temi allegri, degno di essere letto e forse anche di essere divorato, se avrete la curiosità di sapere presto come andrà a finire.


Ma alla fine, che è sta cripta dei cappuccini? E' il luogo di sepoltura, a Vienna, dei massimi esponenti degli Asburgo e anche di qualche imperatore del Sacro Romano Impero. Insomma, se dovessi capitare a Vienna, una passeggiatina ce la farei volentieri. L'importante poi è uscire.

mercoledì 7 marzo 2018

Ah se solo sapessi suonare qualche strumento musicale che figo che sarei.

Lo ammetto, mi sbagliavo. Mi sbagliavo perché credevo che solo la musica italiana fosse degna di essere ascoltata, solo la musica italiana fosse degna di essere acquistata. Poi un Natale di qualche anno fa un collega mi regala "The dark side of the moon" dei Pink Floyd e capisco. Capisco che le canzoni in inglese non sono solo quelle banali che passano per radio ma che c'è un universo infinito in cui non necessariamente bisogna capire le parole, per poter provare piacere. Da lì, da quel primo album, è stato un fiume in piena di artisti da scoprire: arrivano gli Who, i Dire Straits, Jethro Tull, Beatles, Nirvana e così via. Fino ai Led Zeppelin e alla voce unica di Robert Plant. E lì capisco di avere una passione per tutta la musica a cavallo tra la fine degli anni 60 e inizio 70: e pensare che sotto la doccia cantavo solo Cremonini e gli Stadio (ma continuo a farlo). 

Ma chi erano questi Led Zeppelin? Prima ho deciso di comprare e ascoltare con calma i loro primi 4 album, poi ho deciso di approfondire e ho letto "Led Zeppelin: il martello degli Dei" di Stephen Davis. Lo sapevate? Pare che i giovani Led Zeppelin dall'Inghilterra, abbiano praticamente inventato l'Hard Rock partendo dai ritmi del Blues. E lo sapevate che il Blues, che a me da profano sembrava la musica più pallosa del mondo (al pari del Jazz), è invece una figata pazzesca? A volte mi verrebbe voglia di mollare tutto e mettermi a studiare la storia della musica. Ma vi rendete conto quanto sarebbe stato incredibile vivere in quel periodo? All'inizio della loro carriera i Led Zeppelin suonavano sugli stessi palchi dove suonava gente come Elvis, Jimi Hendrix, B.B. King, Rolling Stone e Beatles. Siete ancora seduti a leggere questo articolo? Sbagliate! Andate subito ad ascoltare Immigrant Song a tutto volume e poi mi raccontate. 

La domanda però a questo punto nasce spontanea: ma se a voi i Led Zeppelin non piacciono (anche dopo aver ascolto Immigrant Song, che tanto conoscerete di sicuro), cosa ve lo leggete a fare il libro? Ecco, anche qui sbagliate! Perché è cultura amici miei, cultura. E' storia della musica ma è anche sociologia, antropologia, chimica, geografia, storia contemporanea, tutto. E' un tuffo nel mondo com'era 50 anni fa, con mille incertezze e paure come oggi, è vero, ma con gruppi musicali che hanno letteralmente inventato la musica come oggi la conosciamo. Ah quanto mi piacerebbe parlarvi dei Pink Floyd... vogliamo parlare anche dei Pink Floyd? Chi erano mai questi Beatles, chi erano mai questi Beatles?
 
  • 1969 – Led Zeppelin
  • 1969 – Led Zeppelin II
  • 1970 – Led Zeppelin III
  • 1971 – Led Zeppelin IV
  • 1973 – Houses of the Holy
  • 1975 – Physical Graffiti
  • 1976 – Presence
  • 1979 – In Through the Out Door 
  • 1982 – Coda 

domenica 4 febbraio 2018

Siete stufi di libri pesanti e mattoni di filosofia applicata alla fisica applicata alla chimica applicata a Umberto Eco? Leggete l'ottimo Paasilinna.

Alzi la mano chi di voi conosce Arto Paasilinna. Nessuno? Uno, due? Ci siete? Ok, ammetto che anche io non lo conoscevo, prima della segnalazione di una collega di origine finlandese, che mi ha detto che Paasilinna è lo scrittore più famoso del suo paese. Si va bene, sarà pure famoso, ma non è che i finlandesi spicchino nel mondo per la simpatia, la freschezza, la gaiezza. Non sarà il solito giallista scandinavo o peggio ancora un tristone che ambienta le sue storie noir nei bui inverni di Helsinki? Niente di tutto questo: Paasilinna fa ridere! Ma ridere, ridere, ridere! Si è vero, le sue storie sono effettivamente ambientate (alcune) nei freddi e bui inverni del nord, ma non c'è niente di lugubre, anzi, vien voglia di prendere un volo e andarsi a fare un giro.

Oggi vi scrivo di "Il Mugnaio urlante", uscito nel 1981 e all'epoca, terzo libro di Arto. A dire il vero ho letto anche i primi due: "L'anno della lepre" e "Il bosco delle volpi" ma forse quest'ultimo è quello che mi è piaciuto di più e quindi eccomi qui. Di cosa parla la storia? C'è un tale, che tutti considerano pazzo, che compra un vecchio mulino, in un paesino sperduto della Lapponia. Questo tizio, Gunnar Huttunen, effettivamente ha la strana abitudine di ululare. Ululare proprio come i lupi: lo fa quando è triste ma sopratutto quando è felice. Ulula in particolare durante le notti di inverno e imita talmente tanto bene il verso del lupo, che tutti i cani del villaggio gli ululano dietro e nessuno riesce a dormire.
Va bé, che storia stupida penserete voi. Errore! Perché è vero che Paasilinna adora inserire nei racconti personaggi un pò strani o surreali, ma le storie che costruisce intorno sono tutt'altro che banali o senza senso. Ripeto, ho letto tre suoi libri e mi sono piaciuti tutti, nonostante l'ambientazione sia sempre la stessa, nonostante molti elementi e personaggi tipo si ripetano, nonostante ci siano sempre neve, zanzare, ragazze e soldi di mezzo. Ma in fondo è come andare a vedere film di fantascienza: ci sono sempre pianeti, alieni o robot, ma non per questo uno si annoia, no?

Se poi ci aggiungete che i libri di Paasilinna sono pubblicati in Italia da Iperborea, allora sappiate che dovete subito correre in libreria o in biblioteca. Avete presente i libri di Iperborea? Sono dei rettangoli, lato lungo il triplo di quello corto; insomma, un formato molto particolare e comodo anche da tenere in tasca (magari del giacchetto, più che dei pantaloni). Che aspettate? Se davvero non conoscete Paasilinna, leggete qualcosa di suo e preparatevi a sentire una irrestibile voglia di calvare renne e scoprire tutto sulla storia della Lapponia. Hei kaikki!

lunedì 29 gennaio 2018

Attenzione: la lettura di questo libro provoca immediata voglia di andare a mangiare pesce a Cagliari e carne a Nuoro.

A dicembre sono stato, come migliaia di migliaia di altre persone, alla Fiera "Più libri più liberi" a Roma Eur. Dico migliaia di persone perché il giorno in cui sono andato, ho fatto un'oretta di fila per entrare e mentre ero dentro, ho visto per ore gente accalcata all'ingresso, in attesa di raggiungermi. Vi meravigliate che all'improvviso le persone abbiano scoperto il piacere della lettura? Ma che! Erano tutti in fila per entrare nella Nuvola di Fuksas (il Roma Convention Center, come sembra si chiami realmente). Pensa te, e io che credevo che il mondo si fosse improvvisamente rovesciato. Tralasciando i commenti sull'inutilità del nuovo centro convegni (i cui lavori sono iniziati non so quanti anni fa) e sulla pochezza di questa tanto decantata nuvola, passiamo al motivo di questo articolo, ovvero Gesuino Némus

E chi è Gesuino Némus? Sinceramente non lo sapevo nemmeno io, prima di
andare alla Fiera. Leggendo il programma della giornata, ho scoperto che c'era la presentazione del terzo libro di questo scrittore sardo, che all'esordio nel 2015, ha vinto il Premio Campiello ed é arrivato in finale al Bancarella. Tanto di cappello (me cojoni)! Quale occasione migliore allora per conoscere uno che ce l'ha fatta, uno che ha pubblicato il primo libro a quasi sessant'anni, uno che ti fa dire: c'è tempo per tutto, facciamo con calma (il mio motto da una vita). Gesuino, che in realtà di chiama Matteo Locci, quel giorno ha presentato il suo terzo romanzo ma io ho iniziato dalle origini, dal suo primo "La teologia del cinghiale". Iniziamo col dire che è un giallo, ovviamente ambientato in Sardegna e che se avessi deciso, all'improvviso, di smettere di leggere il libro a tre quarti, vi avrei detto che non mi era piaciuto. Perché? Perché Gesuino fa troppi sbalzi temporali: prima racconta il passato, poi passa alla vita presente (e intreccia storie di vari protagonisti), poi torna a quarant'anni prima, poi ad un certo punto inserisce se stesso e passa dal narratore onniscente alla descrizione in prima persona. Alla fine entra anche nella testa del lettore e lo catapulta nel romanzo: nel bar, nella piazza, nei boschi, come se fossimo lì, ad inseguire anche noi la verità su alcuni omicidi irrisolti. Insomma, un pò confusa questa parte: forse troppa carne sul fuoco e poca sostanza. 

A proposito di fuoco e di carne: il filo conduttore del romanzo è il cibo. Mangiano tutti e mangiano di tutto. Vi assicuro che non c'era una volta che non leggessi il libro e non avessi poi una voglia irresistibile di mangiare maialino, di gustare seadas, di tracannare cannanau e sorseggiare mirto. Su questo Gesuino è un maestro: come ti fa venire fame lui, nessuno. A questo punto devo però dire che invece il finale merita, non tanto per la soluzione dell'enigma in sé ma come ci si arriva. La domanda che ci si fa continuamente è: che fine ha fatto un certo Matteo? E niente, non lo si scopre fino all'ultima riga dell'ultima pagina. Per questo posso scrivere che in una storia abbastanza sciapa (sempre per usare un termine culinario), il finale salato, salva tutto il piatto. Tra una pecora bollita e un sugo di cinghiale, alla fine il dilemma è risolto e sono pronto a scommettere che vi piacerà (il finale intendo, non solo il pranzo). Un voto al libro? Sei e mezzo. Un voto ai prodotti tipici della Sardegna? Dieci. Ajo' oste, portaci un altro litro.

domenica 14 gennaio 2018

Un romanzo stranissimo dove c'è anche una bambina che dice al protagonista che è morto ma il protagonista non è morto ma forse alla fine il protagonista è morto (quanto meno spiritualmente). Oppure è proprio la società che è morta. Vai a capire.

Nella biblioteca di Spinaceto, tra le centinaia di romanzi di autori italiani, ci sono anche tutti i vincitori del Premio Strega. E' facile individuarli perché sono stati tutti ripubblicati dalla UTET e i libri si trovano in una bella versione con copertina rigida e colori diversi a seconda del decennio di uscita. Ne ho letti parecchi, proprio perché incuriosito dal fatto che si trattassero di Premio Strega e devo dire che difficilmente sono rimasto deluso (anche se non ho letto nulla pubblicato dopo il 2000). L'ultimo libro preso è stato "Le stelle fredde" di Guido Piovene, Premio Strega del 1970. Se devo dirvi subito si o no, ovvero se volete sapere a caldo qual è stata l'impressione, be', a malincuore dico "no". No, perché la storia è difficile da interpretare a meno che non si legga il pensiero dell'autore (però a fine libro, per non rovinarsi il gusto). Dico no perché spesso alcuni personaggi del romanzo non si capisce bene che scopo abbiano e in generale, cosa accidenti giri nella testa del protagonista, che parla parla parla per tutto il romanzo ma non è chiaro se sia psicopatico, malato o abbia semplicemente un male di vivere alla Montale.

Però insomma, se alle Stelle Fredde è stato assegnato sto Premio ci sarà anche un motivo. In fondo io non sono un critico e probabilemente non ho colto il sottile vero significato nascosto sotto le parole, che invece ha fatto innamorare chi lo ha votato. Lo ammetto candidamente: qualsiasi cosa ci sia dietro questo romanzo, non l'ho capita! O meglio, ho capito cosa ha scritto Piovene ma non ho capito il senso del romanzo: se sia una critica all'uomo, alla società, all'universo o a Dio. Non ho capito con chi ce l'ha sto Piovene! Però devo anche ammettere che qualche spunto interessante c'è.

Ora, senza raccontarvi troppo, vi dico che c'è una scena in cui Dostoevskij resuscita e sbuca fuori da un albero abbattuto. E poi Dostoevsij racconta cosa c'è dall'altra parte (sotto terra) e dice che tutti noi da morti non facciamo altro che camminare e camminare e siamo in un mondo che è simile a quello in Terra
ma un pò più giallo e ci sono quelli che camminano e basta e quelli che hanno fede in Dio e che camminano e in più fanno sapere a tutti che hanno fede in Dio. Solo che c'è un problema, cioè che queste anime (che non sono anime perché sono ancora mezzi corpi sbiaditi) ogni tanto evaporano e scompaiono e quindi gli stessi morti si ritrovano a farsi domande come quando erano vivi: muoriamo nel dubbio di sapere cosa ci sarà dopo e quando ci rendiamo conto che poi c'è effettivamente qualcosa, stiamo da capo a docidi perché anche nell'aldilà c'è una sorta di seconda morte che non si sa dove ci porti. Affascinante caro Piovene, alzo le mani e dico che è proprio una bella teoria.


Ma continuo a non capire se questo tuo libro sia un manifesto contro qualcosa o sia solo una storia e basta. E continuo a non capire come si possa dare un Premio Strega a un libro che secondo me, scusa se te lo scrivo Piove', il 99% delle persone che lo leggerà, non lo capirà.
Voi fatemi sapere. Vi auguro di essere quell'1%.