giovedì 26 dicembre 2013

Senza titolo

Chissà quante volte sarete passati a Roma, per la stazione Metro A di “Lepanto”: a due passi dal Tribunale, a tre da Piazza del Popolo e a quattro dal Vaticano. Chissà quante volte sarete passati di lì e avrete pensato: “Ma che sarà sta Lepanto?”. Accendi il cellulare, navighi un po’ e scopri che Lepanto, oggi, è una ridente cittadina sulla costa greca, nel tratto di mare che guarda l’Italia, ma che prima di farlo, deve fare lo slalom tra decine di isole ed isolotti sparsi a caso nello Ionio. Ma le acque di Lepanto, in passato, sono state anche teatro di una delle più importanti vittorie dei paesi cattolici contro l’Impero Ottomano.  Li, il 7 ottobre del 1571, la flotta della Lega Santa sbaragliava quella Ottomana, appena uscita vittoriosa dalla conquista di Cipro ma annientata da un’alleanza tutta italo-spagnola, voluta da l’allora Papa Pio V. La vittoria della Lega, fu soprattutto la vittoria di Venezia, la grande avversaria degli ottomani nel Mediterraneo, che stava perdendo, proprio in quegli anni, parte della grande influenza politico-economica che per secoli aveva avuto nel “Mare Nostrum”. 

Come si viveva nell’Europa di quel periodo? Quali erano i mestieri? Quali gli intrighi di corte e le ambizioni dei potenti? Cosa portò a quella battaglia e come avvenne davvero la conquista dell’Isola di Cipro? Qual’era il ruolo degli ebrei in questo universo e quanto i loro soldi potevano o no comprare la libertà e le grazie dei potenti? Tutto questo è “Altai”, romanzo storico con la “R” e la “S” maiuscola, scritto dal famoso Wu Ming, che in cinese, altro non vuol dire che “Senza Nome”. E qui, nasce una storia nella storia, perché Wu Ming non è uno scrittore cinese con una passione per il nostro continente, quanto un gruppo di quattro scrittori italiani, che si sono riuniti in una sorta di cooperativa e scrivono, scrivono, scrivono. Separatamente o a otto mani, come è il caso di questo romanzo. 
 Altai è un avvincente tuffo nel passato, tra i vicoli della Venezia e della Istanbul di metà cinquecento: a bordo di navi trascinate dalla forza dei vogatori, sopra lettighe per non sporcarsi i piedi nel fango dei vicoli, tra i fossati delle trincee degli assedianti, negli hammam della capitale ottomana e le strette calli che portano a San Marco. Ma soprattutto, Altai, è puzzo e profumo. Mai ho trovato un libro in cui gli odori e gli umori sono descritti così bene e sono parte fondamentale ed imprescindibile dell’opera. Ogni verso è immerso nel senso dell’olfatto, come se gli autori avessero voluto riportare alla luce un’epoca passata, proprio grazie agli odori che emanava. Sangue, spezie, sudore, profumi, merda, carne cotta, legno bruciato, incenso, pietre umide, salsedine, alberi in fiore e giardini di polvere. Tutto questo è Altai: come salire su un treno e ritrovarsi quattro secoli fa, in un mondo che non c’è più ma che è quello da cui noi veniamo. Un viaggio attraverso quello che siamo stati. Un viaggio attraverso quello che siamo. 

domenica 24 novembre 2013

Non credo si stesse meglio, quando si stava peggio.


Io e Curzio Malaparte c’eravamo già incontrati, tanti anni fa. Frequentavo i primi anni del liceo e una cara amica (molto più grande di me), mi aveva consigliato di leggere il suo romanzo più famoso: “La pelle”. “Vedrai – mi disse – lo troverai istruttivo e appassionante. Ecco, magari un po’ crudo, ma certamente avvincente”. Lessi le prime venti pagine, non di più, e lo abbandonai. Forse primo caso, allora, di libro iniziato e non finito. Con tutto il rispetto per chi me lo consigliò, lo trovai piuttosto noioso, confusionario e indiscutibilmente pesante, sia come termini usati che come scorrevolezza del testo. Per la cronaca, il libro era ambientato nella Napoli post liberazione nazista da parte degli americani. Di più non ricordo. Sono passati quasi 15 anni, più o meno, e Malaparte è tornato sul mio comodino, stavolta però, nelle vesti di “Kaputt”. Perché questa scelta? Perché la via dove sono andato ad abitare è via Malaparte e visto che il destino aveva concesso al defunto scrittore una seconda chance di entrare nella mia vita, non mi sono sentito di non tendergli la mano e non concedergliela. Grave errore. Kaputt si è rivelato fratello gemello de La pelle, con l’unica differenza che, un libro noioso, letto adesso, si riesce a finirlo comunque, magari impegnandocisi un po’ di più.

 
Ma quindi, Kaputt, che storia racconta? Bella domanda. E’, direi, una serie di episodi realmente vissuti dall’autore, che tra il 1941 e il 1943 ha gironzolato per l’Europa in guerra, in qualità, un pò di ufficiale dell’Esercito Italiano, un po’ di diplomatico e un po’ di inviato di guerra per un giornale. Se da una parte, la ricostruzione dettagliata e precisa di ambienti e personaggi realmente esistiti è molto interessante dal punto di vista storiografico, dall’altra, il soffermarsi righe e righe su dettagli di oggetti o caratteri di persone, rende il testo molto arzigogolato e alquanto ripetitivo. Insomma, riprendete la suddetta descrizione de La pelle e riportatela a Kaputt. Il senso non cambierà. Va sottolneato, molto bello davvero, il soffermarsi dell'autore su racconti di guerra, certo crudi e crudeli, ma efficaci, come la storia dei cadaveri dei cavalli incastrati in un lago ghiacciato in Finlandia, o il racconto del pogrom ebraico in un villaggetto della Moldavia. Peccato poi, perdere un milione di punti quando metà dei dialoghi del libro (e non sono pochi), sono in francese e tedesco. Senza un filo di traduzione. Neanche nelle note.

 
Che dire. Mi sento di fare i complimenti al fu Curzio, per la vita avventurosa che deve aver vissuto, e anche per aver trovato il tempo, quasi ogni giorno, di prendersi appunti e poi trasformarli in libro. Però, caro Malaparte, anche se dovremmo rimanere in buoni rapporti, visto che parcheggio la macchina sempre sotto la tua targa, devo confessarti che il tuo libro, stavolta, a differenza di altri in altri post, non lo consiglio a nessuno, a meno che uno non abbia una passione sconfinata per la storia, google translate a portata di mano e il vezzo di sapere com’era Himmler da nudo. Avessi detto Edda Ciano.

giovedì 3 ottobre 2013

Se la vita fosse una partita di tennis, io non c'avrei capito nulla. Sottotitolo: allora la vita, forse, è una partita di tennis.


Tra me e il gioco del tennis non c’è mai stato amore. Anzi, direi che il termine amore è anche eccessivo, considerando che tra me e il tennis, non ci sono mai stati proprio rapporti. Non ho mai giocato a tennis né credo di essere mai entrato in un campo. Non ho mai assistito ad un match in televisione; figuriamoci dal vivo. Conosco Federer, Nadal, Djokovic si, ma solo per sentito dire. Voi potete anche dirmi che Federer è la classe fatta atleta, che il maiorchino è un portento e che Djokovic è il numero uno, ma io non potrò mai darvi ragione perché semplicemente, non conosco nemmeno una singola regola di questo sport. Poi un giorno, un mio amico mi riempie l’e-reader di libri e casualmente mi ci mette anche "Open": l’autobiografia di Andre Agassi. Mi dice che lo devo leggere assolutamente. E’ troppo divertente. Ok penso, forse a tempo perso lo farò.
Poi, quel tempo perso, è arrivato, una mattina che dovevo fare una lunga fila all’ospedale. Ho preso in mano l’e-reader e ho pigiato sul faccione pelato di Andre. Ho letto 400 pagine in una settimana ma solo perché mi costringevo a smettere per godermelo a pieno (credo sia giusto specificare che la settimana non l'ho passata in fila all'ospedale però). Open è effettivamente divertente, come divertente, è stata la vita di Agassi, il cui papà, un pugile iraniano emigrato negli USA, ha messo in mano la racchetta al figlio all’età di quattro anni e l’ha costretto a giocare. Era convinto che sarebbe diventato un campione, anzi, semplicemente il figlio doveva essere un campione. Non c’erano altre opzioni. Agassi ripercorre la sua infanzia trascorsa nel polveroso campo da tennis costruito dietro casa, le lunghe ore passate ad allenarsi e poi la scuola, a centinaia di chilometri da casa, chiuso dentro un’accademia in cui la mattina faceva finta di studiare ed il pomeriggio, sfidava la crema dei giovani tennisti americani. Un vita di successi, costella da piccoli grandi racconti del quotidiano: matrimoni, aneddoti, paure, match vinti all’ultimo tiro, corse sotto il sole, trofei scaraventati per terra e parrucchini per nascondere i pochi capelli rimasti.



Ma quello che colpisce di più del romanzo (così voglio definirlo) è la sensazione di sincerità che pervade le pagine. Non è un’autobiografia celebrativa, tutt’altro, sembra quasi una parabola da Vangelo: la storia di un uomo che ha sudato per ottenere quel che ha avuto e che ha saputo rialzarsi quando la sua personalità ribelle ed autodistruttiva lo abbatteva. Va detto, in tutta onestà, che il libro non l’ha scritto proprio proprio proprio lui. L’ha scritto tale Moehringer, un premietto Pulitzer che si è preso la briga di farsi lunghe chiacchierate con Agassi e poi buttagli giù un mattone di libro. Ma mai mattone fu a così alta digeribilità. Agassi lo ringrazia pubblicamente alla fine del libro. Sarebbe curioso sapere come si sono divisi i guadagni.
Che dire. Se un obiettivo questo libro l’ha centrato è che non ho potuto fare a meno di andare su youtube e rivedermi gli incontri di Agassi, così ben descritti tra le righe della biografia. Sapere cosa pensava realmente durante quel colpo particolare, mi ha reso non solo ancora più simpatico il personaggio ma in fondo, forse, anche il tennis. Il che è senza dubbio la cosa più incredibile che potessi immaginare. Alla luce di questa mia inaspettata passione per uno sport, sulla base di un libro letto, tendenzialmente, credo eviterò di leggere la biografia di Carla Fracci.



domenica 11 agosto 2013

D'acqua sotto i ponti delle marane n'è passata. E' il resto che è rimasto uguale.


Ogni volta che decido di andare a Trastevere per una passeggiata, spero sempre di trovare la ZTL di via della Lungara aperta. Da lì, mi basta entrare nella prima stradina e ritrovarmi in breve su vicolo di San Francesco di Sales, dove in fondo, ma in fondo in fondo, trovo sempre il parcheggio che cerco, anche in quei sabato sera più neri, dove i motorini faticano a passare e le Smart sono in difficoltà come le auto di noi comuni mortali. Parcheggio nel mio angolo di paradiso e passo a piedi di fronte l’ingresso del carcere. Alzo lo sguardo e vedo il muro giallo e invalicabile, e so che li dietro, oltre che i sospiri e la rassegnazione dei carcerati, c’è anche il cupolone di San Pietro, che forse non lo sapete, ma in linea d’aria sta davvero a poche centinaia di metri. Che poi parlo facile, a farvi credere che io che San Pietro stava là dietro lo sapevo da una vita. Mica è vero. Me ne sono accorto solo ora, che leggendo “I Borgia” di Alexandre Dumas, ho scoperto che a piedi, da Piazza San Pietro a Via della Lungara, non ci vuole nulla, soprattutto se sei il figlio legittimo di un futuro papa che deve correre da sua madre ad aggiornala sulla tecnica scelta per comprare i voti dei vescovi già chiusi in conclave.
Sentite qui: “E’ vero che la sosta non fu lunga, perché appena ebbe fino di leggere la lettera, o meglio il biglietto ricevuto in modo tanto misterioso e tanto strano, lo mise nel portafoglio d’argento, e, sistemando il mantello in modo da coprirsi il viso, riprese di buon passo la strada attraverso Borgo Santo Spirito e imboccò via della Lungara, che percorse fin dopo la chiesa di Regina Coeli. Arrivò là, batté rapidamente tre colpi alla porta di una bella casa, ed essa si aprì subito. Salì in fretta le scale, ed entrò in una camera dove lo aspettavano due donne, con manifesta impazienza”. 

Ed è solo l’inizio di un romanzo, che se proprio non avete la forza di chiuderlo e cuocervi nell’attesa, divorerete in un giorno, affamati di curiosità e sapere. Ci son tanti fatti veri ed un pizzico di fantasia, nell’arte che Dumas ha di raccontare undici anni di una Roma, un’Italia e un’Europa, dominate dagli intrighi di papa Alessandro VI al secolo Rodrigo Borgia. Leggerete di come il papa comprò i voti per farsi eleggere, di come la bella figlia Lucrezia sposò mezza Italia per compiacere la sete di potere del padre, di come il figlio Cesare, detto il duca Valentino, prima uccise il fratello e poi soggiogò la Romagna a suon di spada e tradimenti, di come a Roma, ogni scusa era buona per fare festa: dalla conquista di una città lontana, al ritrovamento dell’ennesimo cadavere nel Tevere (comunque si, il papa aveva dei figli, avete capito bene). Non bisogna dimenticare però che Dumas è francese e se anche non lo sapessimo, dal romanzo, traspare evidente questo suo ancestrale e genetico patriottismo, che tutto misura, nella scala di valori in cui il suo paese è sempre la massima vetta di ogni cosa mai fatta e futura. E così Roma viene descritta come un posto dove nessuno lavora ma tutti mangiano e son felici, i sovrani francesi sono i più forti e i più onesti dell’emisfero e gli italiani sono si i migliori generali e strateghi del mondo, ma tanto i francesi li hanno studiati e superati ormai da tempo.
 
Detto questo, il romanzo è una finestra aperta, più o meno fedele, su un passato oscuro e allo stesso tempo affascinante della nostra storia. Un passato che è in parte lo specchio di quello che siamo oggi e in parte la causa. Un passato che riecheggia, nel bene e nel male, in ogni angolo del centro di Roma, che si, sarà sporco, puzzerà di pipi, sarà pieno di strisce blu, ci saranno i parcheggiatori, la metro farà cacare, la gente sarà maleducata, le pantegane sono padrone del fiume, domani andiamo tutti a Berlino perché fa figo eccetera eccetera, ma lì, da millenni, è passata e passa la storia con la S maiuscola, che è talmente importante che non si può non conoscere. Anche se abiti a Trigoria e nell’ottobre del 1503, mentre Pio III diventava papa con i voti comprati da Cesare Borgia, nella tua zona c’erano capanne, banditi e pecore, venti chilometri a nord il conclave e venti a sud la malaria. A parte la malaria, nulla è cambiato.

sabato 27 luglio 2013

Se nun te scierri mai delle radici ca tieni


Andare in macchina in Salento, è una sensazione che almeno una volta nella vita va vissuta. Come un pellegrinaggio a La Mecca per ogni musulmano o il rafting alle Cascate delle Marmore per ogni romano che abbia un minimo di spirito d’avventura. Che tu scelga di passare per Napoli o tagliare per Benevento (ovviamente il mio viaggio immaginario parte sempre da Roma), arrivato al cartello verde che sbarra la Campania e ti accoglie in Puglia, il tuo cuore avrà il primo sussulto. Cavolo, almeno sono arrivato fino a qui! Ma la Puglia non è come il Lazio, che in due ore di autostrada te lo lasci alle spalle, la Puglia non finisce mai e sei hai la sfortuna di beccare anche il traffico estivo di chi va al mare, la Puglia, oltre che non fine mai, diventa anche un incubo, che nemmeno un Ardeatina – Tiburtina carreggiata esterna del Gra può  competere.


Arrivato a Lecce sei convinto di essere finalmente vicino allo spogliarti e buttarti “ammare”, a prescindere che siano le undici del mattino o di sera. Ma è ancora qui che ti sbagli, perché adesso la Puglia è finita si, ma sei in Salento, e non che anche il Salento scherzi a distanze. Lecce – Leuca è un’altra ora di superstrada, una spada grigia che taglia campi arsi dal sole, ulivi che ti sembrano meravigliosi ma che se entri in qualche stradina laterale ne trovi di ancora più belli e cartelli che ti parlano di nomi di paesini che sembrano usciti da qualche saga fantasy o semplicemente inventati da un bambino di cinque anni. Il Salento estivo è un posto magico e affascinante. Il mare è un sogno, la gente è cordiale, il pesce è buono per essere buono. Se non ci siete mai stati e tutti ve ne hanno parlato bene, fidatevi. Almeno una volta nella vostra vita, ci dovete andare. E andateci, su!
Ma il Salento è così bello, che quasi varrebbe la pena di vederlo anche sotto un altro punto di vista. Quello delle tre stagioni che non sono estate. Dell’autunno piovoso, dell’inverno dal vento freddo e della primavera dei primi soli caldi e dei fiori allegri. Questo Salento io non l’ho mai visto, e come me, forse tutti quelli che in Salento ci sono stati nei mesi più caldi. Aspettando che l’ispirazione per questo viaggio autunnale mi colga fecondo, nel frattempo Gianluca Gulluni, nel suo “Il sindaco e il paziente” (Scriptalab edizioni), mi ha dato modo di immergermi, dalla poltrona di casa, nelle atmosfere di un Salento atipico, che il turista non conosce e di cui la televisione non parla mai. Ma l’ho detto prima, il Salento è grande, e Gianluca non parla mica di tutto il Salento, ma di uno spicchio di terra affacciato sull’Adriatico, di poche piccole torri, di paesini che gli abitanti li conti come l’appello della scuola media, di strade che a farle tre volte ad andare e tornare già le conosci come c’avessi sempre vissuto. In questo microcosmo nel microcosmo, Gianluca ci costruisce un romanzo che si svela pian piano sotto gli occhi del lettore, che ti parla di uno spaccato di estrema Italia che nessuno ti ha mai raccontato così e di vite intrecciate in altre vite, che lui con abile fantasia cuce e scioglie. A tratti, la sua scrittura ricorda Sciascia, con quel vocabolario misto di italiano e dialetto, quelle descrizioni dei personaggi così rapide, che in due righe ti racconta tutta la loro vita e hai l’impressione di sapere già tutto di quella persona.
Ma non svelerò nulla della trama, né dei protagonisti, né di altro. Ci sono tanti modi per attirare l’attenzione di un possibile lettore su un libro ed io ho scelto quello della curiosità per una cornice. La cornice in cui questa storia è raccontata: il Salento che c’è ma non si vede, le montagne innevate dell’Albania che son lì che le potresti quasi toccare con un dito, il rumore della risacca del mare che è qui sotto di noi ma è tanto buio che puoi solo immaginarlo. La cornice di un’Italia che non puoi mica dirlo se davvero sei qui o in un altro mondo, la cornice di un mare che oggi è tuo ma ieri era di antichi popoli che hanno scritto la loro e la tua storia, la cornice di un cielo che da’ la vita e porta la morte, in una terra che è l’estremo lembo di un Paese decaduto e allo stesso tempo il centro del mondo. Réclame.
 
 

mercoledì 3 luglio 2013

Tu mi fai girar, tu mi fai girar, come fossi un emigrant.

Qualche anno fa mi capitò di vedere una foto in bianco e nero su un articolo che parlava dell’emigrazione in America agli inizi del novecento. Nella foto era raffigurata una famiglia appena sbarcata ad Ellis Island. La madre con in braccio la figlia più piccola e sulla destra il fratello maggiore che tiene per mano un’altra sorella. La cosa che mi colpì più di tutte, fu il colore delle mani e del volto della madre: nero. Ma non il nero mulatto di una bella abbronzatura di fine estate, bensì il nero di anni di lavoro sotto il sole, di terra, di sporco, di povertà. Lessi l’articolo e scoprii che quella famiglia era italiana. Non era specificato se fossero veneti, lucani, siciliani, napoletani o piemontesi. Erano semplicemente italiani. La foto fu scattata più o meno cento anni fa, ma poteva essere di cinquant’anni più vecchia o di venti più recente: il colore della pelle e le valigie sullo sfondo non sarebbero cambiate.

Guardai la foto e ripensai ai cinque anni del liceo. Ogni mattina il percorso dell’autobus ci portava a passare di fronte ad un grande campo nomadi, ed ogni mattina, immancabilmente, l’autobus a quella fermata si riempiva di rom: famiglie dalla pelle scura di sole, donne con foulard in testa e uomini dal sorriso dorato e dalla lingua incomprensibile. La foto della famiglia italiana non può parlare, ma l’americano medio che vide quei disperati sbarcare su quel molo le voci le sentì eccome ed ebbe forse la mia stessa sensazione del non capire una parola di quello che dicevano.

C’è stato un tempo in cui i rom sull’autobus, gli africani sulla spiaggia, i romeni sulle impalcature e gli indiani al benzinaio, eravamo noi. Noi, che oggi abbiamo rimosso quel passato o che al massimo, ce lo raccontiamo differente da come è stato realmente. I libri di scuola e i film storici ci parlano dell’emigrante ben accolto e dell’italiano brava gente. Ma noi non eravamo né ben voluti né tanto meno brava gente. Gli italiani, soprattutto quelli dalla Liguria in giù, erano considerati europei di serie B e addirittura, in alcuni tribunali del centro degli Stati Uniti, giudicati come neri e non come bianchi. Che non fosse però solo una questione di mero razzismo ma in parte i nostri bisnonni se la cercassero, lo dicono anche le statistiche sul tasso di criminalità e sugli arresti nei primi decenni del novecento negli States. Quasi la metà dei galeotti erano cittadini italiani, ben più della somma di tutte le altre etnie messe insieme (al pari solo dei russi). Ma quello degli USA è solo un esempio. La cattiva impressione che l’italiano faceva all’estero era presente in praticamente tutti i paesi dove l’emigrazione ci ha portato: Australia, Argentina, Svizzera, Francia. Se avete voglia di approfondire l’argomento vi suggerisco il libro di Gian Antonio StellaL’Orda – Quando gli albanesi eravano noi” edito da Rizzoli, dove troverete tante tristi esempi di come il mondo ci vedeva (e spesso ancora ci vede) fino a qualche decennio fa e di come l’emigrato italiano, che oggi appare come ricco e felice tra un ranch australiano e un Columbus Day newyorkese, ieri fosse l’ultimo degli ultimi, un po’ più in alto dei neri e al pari dei cinesi.

Leggerete di come i bambini fossero fatti emigrare e sfruttati dagli stessi italiani, che in pratica facevano un caporalato sulla loro pelle. I maschi a spalare camini in Europa, le femmine a prostituirsi nei bordelli dell’Africa. Leggerete di come i giornali americani descrivevano la vita a Little Italy, di come gli anarchici italiani cercarono di cambiare il mondo e fecero scuola di terrorismo, di come in Svizzera ci fossero sale d’aspetto alla stazione solo per noi (e non per omaggiarci!). Scoprirete insomma quel che i libri di scuola non dicono e l’origine di tanti pregiudizi che il mondo ha verso di noi. Da secoli.

Un’ultima considerazione sulla storia e sulla ruota in cui tutto gira e tutto torna. Oggi, come ieri, stiamo tornado ad essere emigranti e lasciamo in massa questo paese alla ricerca di un futuro migliore. Oggi, più di ieri, però, l’italiano che parte non è quello povero e disgraziato di cento anni fa, ma il laureato che mette il suo potenziale al servizio di altri paesi, con buona pace e tanto orgoglio per chi resta qui: a combattere per entrare in una università scadente e ad aspettare la raccomandazione dello zio di terzo grado arciprete di campagna. In attesa di imbarcarci anche noi per l’America (stavolta in aereo) o nella speranza di veder cambiare le cose qui, intanto cerchiamo di scoprire come eravamo fino a ieri, ma davvero fino a ieri, quando mentre Patty Pravo cantava “La Bambola”, i nostri padri in Svizzera dovevano star zitti per non far capire di essere italiani.

giovedì 6 giugno 2013

Per chi suona la campanella


Quando passai dalle scuole medie al liceo, mi accorsi che tra gli aspetti positivi del grande salto c’era senz’altro l’assenza dei compiti per le vacanze estive. Non più maledetti libri con centinaia di pagine di raccontini da riassumere ed esercizietti di matematica, ma finalmente l’unica cosa che reggesse il confronto con i meravigliosi pomeriggi trascorsi a giocare a pallone: la letteratura italiana.

Tra le decine di libri letti in quelle quattro estati trigoriane, a parte “I Malavoglia”, che dopo una ventina di pagine venne gentilmente riposto nel cassetto meno a portata di mano possibile, tanti libri sono diventanti per me un bel bagaglio culturale che ancora oggi mi porto dietro, tra il desiderio di capire cosa ci sia di tanto avvincente ad Eboli per convincere Cristo a prendersi un appartamento e la rabbia e la rassegnazione dei contadini abruzzesi, cornuti e mazziati in quel di Fontamara. In mezzo a questo mare di libri ce n’era anche uno lunghissimo e voluminosissimo: “La storia” di Elsa Morante.
Il mio rapporto con questo libro iniziò però, nel peggiore dei modi: ordinammo 25 copie e ce le consegnarono in aula in un grande scatolone imballato. Il rappresentante lo aprì davanti alla classe ed io, che ero casualmente al primo banco, scrutai quei 25 mattoni color crema pronti a vivere di vita propria tra le mani di ignari diciassettenni. M’accorsi subito però, che uno dei primi volumi aveva la copertina rovinata e una brutta piegatura sul lato. “Fa che non lo dà a me, fa che non lo dà a me, fa che non lo dà a me”. E fu così che tornai a casa proprio con quello più brutto e capii, se mai avessi avuto ancora dubbi,  che dal giorno dopo mi sarei sempre messo all’ultimo banco. Nonostante l’incomprensione iniziale, con “La storia”, fin dalle prime pagine fu subito grande amore, soprattutto perché il romanzone era ambientato a Roma nel periodo della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione nazista. Decisamente il mio periodo storico preferito.
Raccontare più di settecento pagine in poche righe non è uno scherzo ma ci proverò comunque: una giovane SS violenta una futura vedova romana, già madre di un figlio quindicenne ribelle e finto simpatizzante fascista. Nasce Giuseppe e non potrebbe scegliere momento migliore per venire al mondo, visto che: siamo in piena guerra, San Lorenzo (dove abita) viene bombardata, vive la tribolata vita da sfollato e i nazisti gli occupano Roma. Una caleidoscopica serie di personaggi (tra cui anche qualche cane) orbitano intorno a lui e alla madre, raccontandosi e raccontando una Roma di borgata, scossa e sconvolta da una guerra che nessuno sa gestire e che nessuno capisce. In un libro così lungo è normale che ci siano ogni tanto delle parti noiosette, ed in effetti, soprattutto qualche monologo pseudo anarchico/comunista finale, rompe il ritmo di un racconto che nel complesso è incalzante, avvincente e pieno di colpi di scena. Insomma, se “La storia” non può considerarsi certamente un romanzetto da ombrellone, resta comunque un capolavoro della letteratura italiana e mondiale, meritevole di lettura, al di là che sia un’anziana professoressa di italiano ad obbligarti (o caldamente consigliarti) a farlo. 

Ora che ricordo, devo confessare che in quelle famose vacanze estive liceali, anche la professoressa di matematica ci suggeriva sempre qualche libro di esercizi da fare (e per suggerire intendo obbligare). Solo che la mia mente trasformava, per l’appunto, l’obbligo in opzione, e quindi, sceglievo si di comprarlo, ma di compilarlo comodamente in classe, i primi giorni di lezione a settembre, quando l’ombrellone era già incelofanato in cantina e il verde spento del banco sostituiva il giallo secco di aridi ed insettosi campi di grano.

venerdì 31 maggio 2013

Padre nostro che sei elettronico, sia santificato il tuo 01010101010101

Fino a qualche tempo fa ero uno dei più ferventi oppositori degli eReader e di tutto quello che non fosse un profumatissimo e accarezzantissimo libro di carta. Non avevo alcun dubbio sulla bellezza che si celava dietro lo scorrere le righe di un testo tenendo tra le dita le pagine grezze, o scrivere pensieri in cima o in calce, o aprire il libro con delicatezza o piegandone le pagine a metà per lasciare il segno. Insomma, da quando è mondo è mondo, il libro è sempre stato il libro e niente e nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea. Poi, dopo aver trascorso mesi a parlar male degli eReader senza averne mai visto uno, ho deciso che forse valeva la pena provarlo e dopo mezzo minuto tra le mani, ho deciso di comprarlo.
In venti per dieci centimetri di tavoletta, ora posso tenere anche 100 libri e in più, non solo non disturba la vista come pensavo (almeno quello non retroilluminato) ma è anche bello da vedere. Con una batteria praticamente semi eterna. Insomma, ho sputato per mesi su un oggetto che poi, alla prova dei fatti, è risultato piacermi da impazzire.

L’euforia per il nuovo giocattolo è durata qualche giorno, dopo di che sono tornato in una libreria e ho comprato un libro. Un libro vero. Ho smesso di leggere quello che avevo iniziato sull’eReader e ho cominciato quello nuovo. Punto. Il libro di cui vi voglio parlare oggi non è nessuno dei due citati prima, ma è “A volte ritorno” di John Niven, il primo e fin’ora unico libro che ho letto sull’eReader. Diciamo subito che il romanzo di Nives è divertente, originale e coinvolgente. Il classico libro da leggere se avete una vita di foschi pensieri e la sera volete staccare il cervello e far lavorare solo un poco la fantasia, giusto quel tanto che serve per creare nella mente le immagini dei personaggi.

Dio torna da una breve vacanza (cinque secoli terrestri) e al suo arrivo in Paradiso si accorge che la Terra che ha lasciato non è più la stessa. L’ultima cosa che lui si ricordava era il Rinascimento, ora trova solo guerre, genocidi e un’umanità senza più speranze né sogni. Così decide di rimandare Gesù sulla Terra, nonostante il figlio non abbia alcuna voglia di scendere di nuovo tra gli uomini. Gesù, giocoforza obbediente, stavolta raccoglierà i suoi nuovi “apostoli” tra gli sbandati degli Stati Uniti e proprio lì parteciperà ad un talent show musicale, per riuscire ad apparire in TV e diffondere a più persone possibile il suo nuovo verbo: “Fate i bravi”. Nonostante i presupposti, il libro non risulta né blasfemo né particolarmente offensivo. Le opinioni sulla Chiesa e sull'umanità che il Gesù di Nives ha, sono praticamente le stesse che ci potrebbe dare un qualsiasi sconosciuto per strada e quindi il libro risulta divertente e davvero alla portata di tutti, senza nessuna pretesa di dare risposte o consigli a nessuno (se non vi fidate, al massimo, non leggetelo!).

La lettura di “A volte ritorno” e la vita dell’eReader, è durata il tempo di un viaggio andata e ritorno in treno tra Roma e Firenze (però su un lentissimo intercity, ci tengo a specificarlo). Dopo di che, come già detto, il rettangolino nero è rimasto a guardarmi nel ripiano della libreria, in attesa che io lo accenda di nuovo, o quanto meno, gli tolga gentilmente un po’ di polvere dallo schermo.

martedì 28 maggio 2013

California here we come


Volo Ryanair Salonicco - Roma. Maggio del 2012. Quattro giorni di Grecia: mare, sole, ottimo pesce e la conferma che il Mediterraneo sforna gente della stessa razza, a prescindere da dove nasci. Italiani, spagnoli e greci sono indistinguibili se presi singolarmente. Quello che fin’ora mi era stato solo detto, ora posso confermarlo. Salgo le scalette dell’aereo e la hostess italiana mi saluta sorridendo. Butto l’occhio su un ripiano sulla destra e vedo un libro: “Sulla strada” di Jack Kerouac. Incredibile. E’ la stessa edizione che ho io. Me l’hanno regalato proprio qualche settimana fa e l’ho letto in una settimana. Forzandomi per fermarmi ogni tanto, così da gustarmelo meglio. Faccio un commento ad alta voce sul libro e senza nemmeno voler attirare l’attenzione della hostess, in effetti lo faccio. Le racconto, tra una valigia posizionata nello scompartimento e una cintura allacciata, che il libro mi è piaciuto un sacco e che fa bene a leggerselo. La hostess sembra soddisfatta ed io le evito di concludere la mia recensione involontaria.
Ho omesso che “Sulla strada” è si interessante, ma tanto tanto lento e soprattutto ripetitivo. Tanto ripetitivo. Kerouac scrive il manoscritto del suo libro nel 1951. L’opera vedrà la pubblicazione solo 6 anni dopo, nel 1957. Un motivo ci dovrà pur essere. La storia è semplice: il libro racconta una serie di viaggi, compiuti nell’arco di pochi anni, del protagonista (nonché autore stesso) attraverso gli Stati Uniti. Droga, alcool, sesso, ritorno alla vita naturale, immensi spazi americani da percorrere a tutta velocità in macchina. “Sulla strada” diventa presto il manifesto della beat generation, ovvero quella generazione americana, metà anni 50, che rifiuta i formalismi e i falsi miti della vita quotidiana, fatta di lavoro, rispettabilità, cura del giardinetto, patriottica guerra di Corea. La risposta a tutto questo è la fuga e la corsa verso sensazioni sempre nuove e più intense, immancabilmente condite da una bella dose di anfetamine. Il risultato di anni (o spesso anche solo mesi), di questa vita a perdere, porta a due possibili conseguenze. O la cancellazione totale di ogni capacità di pensiero e ragione, o la presa di coscienza dell’impossibilità di una vita così e la triste rassegnazione all’omologazione e al ritorno all'ordinario.
Non svelo quale sarà il destino del protagonista ma confermo la mia idea che questo libro può piacervi da impazzire o portarvi ad implodere di noia dopo venti pagine. Come sempre, la verità forse sta nel mezzo. E’ un libro che va letto perché è un caposaldo della letteratura mondiale e perché racconta una pagina di storia americana che è ancora poco conosciuta. Ma non è detto che un grande libro debba essere per forza anche bello, e questo ne è l’esempio. “Sulla strada” è un libro che leggerete una volta ed una volta sola, ma qualcosa di certo vi lascerà. Quanto meno, vi avrà fatto compagnia tra un autostop e l’altro mentre andate verso il Pacifico.
 

domenica 19 maggio 2013

Eravamo noi e Mario Balotelli in cammino


Tra i generi letterari più amati (quanto meno da me), spicca senz’altro il “romanzo storico”, ovvero la ripropozione di fatti, personaggi, eventi, realmente accaduti, raccontati in un romanzo e fusi tra loro con un pizzico di fantasia e qualche cosa di inventato. Il problema del romanzo storico però, è che per esser definito tale, deve trattare di eventi accaduti almeno qualche decennio fa (per esempio oggi si potrebbe già scrivere un bel romanzo storico, che so, sulle Olimpiadi di Roma del 1960). Quando invece si racconta di eventi di una decina d’anni fa, come si può definire il romanzo?
E’ il caso di “Erano solo ragazzi in cammino” dell’americano Dave Eggers, che racconta la biblica avventura di Valentino Achak Deng, un rifugiato politico sudanese, fuggito una quarantina di volte alla morte ed ora responsabile di una fondazione americana, impegnata proprio nell’aiutare i rifugiati sudanesi, in Africa e nel mondo. Se andate su Wikipedia e cercate “Guerra del Darfur”, troverete informazioni sui tre anni di guerra civile (2003-2006) e potrete ricostruire la storia politica, economica e umanitaria del conflitto. Quello che non troverete è invece la vera storia, le vere storie, delle migliaia di morti, dispersi e rifugiati, che quella guerra l’hanno vissuta quotidianamente e che questo libro cerca di raccontare. “Cerca” è in realtà un termine ingiusto, bisognerebbe dire “riesce” a raccontare. Perché le quasi 600 pagine del libro sono la sintesi perfetta di tanti racconti di vite che l’autore ha condensato e ha romanzato in un’opera che trasmette le stesse sensazioni e le stesse emozioni vissute realmente dai protagonisti.
Erano solo ragazzi in cammino” non potrebbe essere titolo più evocativo. La nuda e cruda esperienza di un gruppo composto da migliaia di bambini che partono da un villaggio del Sud del Sudan e per scappare dalla guerra e dalla morte si incamminano verso l’Etiopia, attraverso foreste, leoni, soldati, fame vera e notti nere senza speranza. Poi, per chi è riuscito a sopravvivere, la vita nei campi profughi, ogni giorno che si ripete sempre uguale, la miseria di un pasto al giorno ma l’orgoglio e la fierezza di cercare anche lì di crearsi una vita, la propria indipendenza, alimentare un sogno, anche il più piccolo.

Leggi il libro, più o meno tutto di un fiato e poi ti fai un bel esamino di coscienza e realizzi che non solo fai parte della specie umana e quindi anche per questo dovresti sentirti un po’ una merda, ma soprattutto ti vien voglia di fare qualcosa per queste persone, ma a quel punto ti senti ancora più una merda, perché sai già che non lo farai. Infine, guardi la copertina del libro e hai l’impressione che la figura che hai lì davanti, assomigli un sacco a Mario Balotelli. E così realizzi che nella vita, in fondo, è solo una questione di fortuna. Qualsiasi sia la tua storia e qualsiasi cosa tu abbia vissuto o superato per arrivare ad essere quello che sei (un calciatore o il responsabile di una fondazione umanitaria), quel che conta è che tu sappia sfruttare la tua occasione ed essere felice di quello che hai. Perché in fondo, tra quei ragazzi in cammino, è stato solo un fortuito caso che non ci fossimo anche noi.

martedì 14 maggio 2013

Sangue, neve e corna: vi presento il dottor Zivago


Quand’è stata l’ultima volta che avete letto un libro e poi, presi da irresistibile curiosità, siete andati a vedere il film che ne era stato ricavato? Non vi sforzate troppo, non mi interessa sapere di quale libro si trattava, mi interessa sapere che lo avete fatto. Perché lo avete fatto. E’ l’assioma del lettore. E allora alzate la mano e ditemi quante volte avete visto il film e siete stati presi da un senso di profonda delusione? Tante, troppe. Chissà, forse perché quell’attore non centrava nulla con l’immagine che voi avevate dato al protagonista, o forse perché nel film mancavano degli episodi che per voi, nel libro, assumevano un senso che non poteva essere omesso.
La prima ed unica volta (visto che non ho tendenze suicide) che ho letto “Il Dottor Zivago” di Boris Pasternak (До́ктор Жива́го, qualora leggeste il russo), ho provato anch’io l'irresistibile voglia di vedere il film, spinto dalla curiosità non solo di scoprire quali volti erano stati dati ai circa nove milioni di personaggi del libro, ma anche per capirci qualche cosa del libro stesso, visto che, delle settecento pagine che lo compongono, delle prime cento non c’avevo capito nulla (troppi personaggi in cerca d’autore). A dirla tutta, il film del Dottor Zivago, se avete prima letto il libro, è una delusione mostruosa e contiene tutte le caratteristiche negative suddette, soprattutto la malsana idea di non trasportare in pellicola interi capitoli del libro, che del libro, a mio avviso, ne sono l’essenza.
Partendo quindi dal presupposto che il film non va visto, il libro resta un vero e proprio capolavoro, non solo per la ricostruzione storico/romanzata di vent’anni di storia russa, ma per la maestria con la quale Pasternak descrive gli ambienti e i paesaggi dove i personaggi si muovono. La trama è semplice: Jurij Zivago, che da grande farà il medico (come il titolo suggerisce), nel frattempo che è piccolo viene adottato da una famiglia, famiglia nella quale c’è una bambina, Tonja, che anni dopo diventerà felicemente moglie di Zivago. Quando scoppia la Grande Guerra, Zivago, che intanto è diventato medico, va al fronte e lì incontra l’infermiera Lara, della quale, a sorpresa, s’innamora. La vita continua e Zivago torna dalla moglie mentre Lara sposa Pasa, un giovane rivoluzionario, bruciato dalla passione politica e dalla passione per lei. Peccato che però, quando Tonja va a Parigi per fuggire alla miseria, casualmente Zivago rincontri Lara e sempre casualmente riscoppi la passione, alla faccia della moglie in pensiero a Parigi e del rivoluzionario di belle speranze. Tra gelo siberiano e lupi affamati, non svelo il finale ma chiudo raccontando un piccolo aneddoto.
Il Dottor Zivago” fu scritto in russo ma venne pubblicato per la prima volta in italiano, da Feltrinelli, nel 1957. Pasternak,vista la traccia del romanzo palesemente contro la rivoluzione comunista, non poté pubblicare in patria, e riuscì a spedire il manoscritto a Feltrinelli, che ne intuì il potenziale e che lo pubblicò immediatamente (nonostante il partito comunista italiano avesse storto il naso). Il libro fu un successo e l’anno successivo Pasternak vinse il Nobel per la letteratura. Dovette però scegliere. Andare a ritirare il premio avrebbe significato gloria ma anche non poter più rientrare in patria, dalla quale sarebbe stato esiliato. Pasternak scelse di restare in Russia e dopo soli due anni morì, tra l’indifferenza del governo sovietico e la sileziosa ammirazione del resto del mondo.

lunedì 13 maggio 2013

L'eterno ritorno, l'eterno ritorno, l'eterno ritorno, l'eterno ritorno, l'eterno ritorno...


“L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?”

Ci sono voluti diversi anni, ma alla fine, anche io ho letto “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera. Ci sono voluti diversi anni si, ma da cosa? Da quella volta in cui sentii nominare il libro per la prima volta. Era il giorno dell’orale della maturità e la ragazza interrogata prima di me portò a far vedere ai professori, tutti i libri che aveva letto per prepararsi. Li posizionò bel belli sul tavolo e cominciò a raccontare del perché li avesse scelti e di quale legame, ognuno, avesse con l’argomento che trattava nella tesina. Fu così che mentre lei guadagna minuti preziosi, riempiendo il suo esame di fiumi di parole, io adocchiai questo libro dal titolo enigmatico e promisi di leggerlo, un giorno, quando il destino me lo avrebbe riproposto. A distanza di dieci anni, il destino ha preso le forme della Biblioteca di Spinaceto e di una mattina in cui, con soli tre euro, ho portato a casa non solo il suddetto libro ma anche un calendario, riposto seduta stante in un cassetto, visto il marzo inoltrato in cui ormai mi trovavo.

“L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?”

Di per sé, la storia che viene raccontata nel libro è semplice. Ci sono quattro protagonisti: due sono sposati, la terza è l’amante dello sposo, il quarto è l’amante dell’amante dello sposo. In realtà ci sarebbe anche un quinto personaggio, ovvero il cane degli sposi, che però non è abbastanza interessante, in quanto a sua volta, non ha amanti né scheletri nell’armadio da piazzare in prima pagina. Intorno ai personaggi, Kundera dipinge due cose: la prima è la Praga pre e post invasione sovietica del 68, l’altra è una serie di riflessioni filosofiche sulla vita, l’amore, il senso stesso della storia e dell’uomo, che lasciano (almeno con me è stato così) senza parole. Prendete un libro di storia della filosofia ed uno di psicologia, agitateli e quello che troverete, versando il tutto nel bicchiere, sarà “L’insostenibile leggera dell’essere”, un’opera che può esaltarti e farti esplodere d’amore in una pagina e deprimerti ed istigarti al suicidio in quella successiva.

“L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?”

L’idea che ho avuto di questo libro è che sia perfetto per tutte le età, non solo nel senso che può leggerlo chiunque (anche chi di solito non legge mai, anzi soprattutto chi di solito non legge mai), ma che andrebbe riletto ad intervalli di dieci anni, perché ogni riflessione che viene fatta tra le righe, può emozionare e colpire chi la legge, in maniera diversa, a seconda di quale sia l’esperienza di vita che si ha. Per cui, se anche non aveste alcuna intenzione di leggere il libro (o di rileggerlo, nel caso non ve lo ricordaste), nessuna problema, avrete tempo per ripensarci e farlo, anche a novantanove anni. Chissà, magari per il centenario della Primavera di Praga.

“L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?”

venerdì 10 maggio 2013

Attenzione, la lettura di questo libro è consigliata ad un pubblico


Qualche giorno fa ho fatto un sogno. Ero in uno spogliatoio maschile e, in accappatoio, ascoltavo i discorsi che facevano gli altri uomini nella stanza. Tra i vari discorsi, che a dire il vero non ricordo, solo uno in particolare mi aveva colpito, tanto che, a sogno finito, ripetevo nella mente le parole ascoltate. Due signori, più o meno sulla cinquantina (che nel sogno sapevo essere sposati), parlavano di donne e uno diceva all’altro: “Quando ero fidanzato, i primi tempi era una scocciatura perché dovevo sempre stare attento a tutto e dovevo sempre vestirmi bene. Col passare del tempo poi, le cose sono cambiate, tanto che abbiamo smesso di badare a certe cose e ad un certo punto, ci siamo abituati a tutto. Anche all’alito pesante. Non era più importante nemmeno che ci lavassimo i denti, tanto ci volevamo bene e sopportavamo qualsiasi cosa. Quando una donna smette di lavarsi i denti, vuol dire che ti ama”.
Riflessioni sul senso di questo sogno a parte, e riflessioni su quanto per me sia importante lavarsi i denti anche al centotrentaquattresimo anno di matrimonio, tutto questo mi ha fatto venire in mente un libro che, smettendo di scrivere “riflessioni a parte”, a me è piaciuto tantissimo: “Il Re dell’Avana” del cubano Pedro Juan Gutiérrez. Gutiérrez, che oggi è docente universitario nonché poeta nonché scultore, si avvicinò alla scrittura dopo una svariata serie di lavori, che spaziavano dal gelataio all’istruttore di kayak. Nei suoi libri, il tema principale è, neanche a dirlo, Cuba e i suoi abitanti, descritti e raccontati senza veli (da intendersi sia in senso psicologico che nel senso di vestiti che si levano). Il “Re dell’Avana” è quindi una sorta di romanzo soft porno, dove il protagonista non fa assolutamente nulla da mattina a sera, se non cercare di procurarsi qualcosa da mangiare (senza grande inventiva e voglia) e fare all’amore. Fare all’amore con qualsiasi cosa gli passi davanti. E’ inutile dire che in molti casi, l’alito del partner, non rappresenti un vincolo stringente alla realizzazione delle avventure erotiche del protagonista.
In tutto questo, vi apparirà sotto gli occhi una Cuba come non ve l'aspettate, lontana dalle immagini da cartolina e molto più concreta. Vera. Esattamente la Cuba che non vorreste mai vedere perché correreste il rischio di non raccontarla. Seppur il libro non mi abbia ispirato voglia di prendere il primo volo per l’Avana (ma in effetti non credo fossero queste le reali intenzioni dell’autore), la lettura è caldamente consigliata, soprattutto sotto l’ombrellone, visto che il romanzo è piacevole, divertente e con un finale a sorpresa, che io, per ovvie ragioni, e ovviamente riflessioni a parte, evito di svelarvi.

domenica 5 maggio 2013

Il "Club dei NarrAutori" ovvero, avrete qualcosa da fare nei prossimi venerdì!


Conosco Danilo Cipollini da diversi anni. Credo che però, più o meno, ci saremo visti in tutto una decina di volte, o giù di lì. La questione, come tutte le cose, ha un aspetto positivo ed uno negativo. Quello negativo (del non vederci spesso) è che Danilo è un tipo simpatico, alla mano, con il quale difficilmente esci e non trascorri una serata piacevole, tra una birra e qualche aneddoto sul suo passato, di solito erotico. L’aspetto positivo, invece, è che ogni volta che incontro Danilo, mi sommerge di parole e mi racconta di nuove idee per farsi conoscere, progetti di vita, libri da scrivere, persone da incontrare, universi da esplorare. Io ascolto e ascolto e poi realizzo, con invidia, che per realizzare anche solo la metà di quello che immagina lui, a me ci vorrebbero almeno due vite, e in queste due vite, dovrei dormire comunque tre ore a notte.
Ma Danilo non è un tipo che chiacchiera per chiacchierare. Lui, va detto, fa. E stavolta, devo ammetterlo, l’ha fatta anche molto bella. Danilo e il suo amico Jacopo Ratini (cantautore e scrittore) hanno inventato il “Club dei NarrAutori”, che altro non è che una serie di serate evento, nelle quali perfetti sconosciuti e dilettanti allo sbaraglio, si esibiscono in un reading letterario, e hanno cinque minuti per leggere al pubblico (e ad una giuria), la loro opera. Racconto o poesia che sia. Lo scorso venerdì, sono stato invitato a seguire l’ottava, delle dieci serate programmate per questa stagione. Mi sono ritrovato anche a far parte della giuria popolare e ho potuto apprezzare, con una birra in mano e la penna per i voti, che il livello di chi sale sul palco, tutto è tranne che di dilettanti allo sbaraglio.
In questa città, come in tutto il Paese, c’è un sottobosco di amanti della letteratura ed aspiranti scrittori, che cresce sempre di più e sempre di più vuole trovare spazi dove mostrarsi, far conoscere le proprie opere, incontrare persone che la pensavo e “la sognano” come loro. Il “Club dei NarrAutori” è tutto questo, un piccolo mondo dove ognuno è a casa sua e dove tutti vogliono fare soprattutto una cosa: divertirsi. La prossima serata sarà venerdì 17 maggio, alle ore 22:00, al KO di Via degli Ernici a San Lorenzo (la stradina è piccola, non potete non vederlo!).
Andateci, perché a prescindere che vi piaccia o meno scrivere, che siate troppo snob per San Lorenzo, che il venerdì per voi è serata salsa, che schifiate i poeti concettuali e gli scrittori falliti con un bicchiere in mano, che leggiate questo post e a pelle sentiate il bisogno di cancellarlo per sempre dai vostri ricordi, vi assicuro che vi divertirete e che di certo, passerete una bella serata, lontana da qualsiasi cosa abbiate mai fatto e molto molto vicina a quello che io chiamo: la ricerca della felicità.

mercoledì 1 maggio 2013

Jonathan Livingston e il gatto che non gli insegnò a volare


C’era una volta un bambino che frequentava le scuole elementari. Nell’estate tra la seconda e la terza, la maestra diede un compito molto semplice. Scegliere un libro dalla libreria di casa, leggerlo e farci un riassunto. Questo bambino trascorse l’estate in maniera spensierata: perse la vista di fronte allo schermo di un computer, andò in villeggiatura sul litorale laziale, giocò a pallone tra auto parcheggiate e tralicci dell’alta tensione, guardò i cartoni animati e mai, nemmeno per un secondo, pensò di fermarsi un attimo a leggere un libro.
Arrivò la vigilia del primo giorno di scuola. Il bambino, preso da un improvviso, quanto tardivo, senso di responsabilità, decise di scegliere un libro e leggerlo, nel disperato, quanto anch’esso tardivo, tentativo di non presentarsi il giorno dopo a mani vuote. Scelse il libro più piccolo che trovò nella libreria, lo sfogliò, poi lo posò sulla scrivania e promise a se stesso che lo avrebbe letto la sera, prima di andare a dormire. Quando il bambino si svegliò, nel cuore della notte, si rese conto che erano le due passate e che forse, ma non è che fosse troppo convinto, era arrivato il momento di leggersi quel libro. Sgattaiolò dal letto e si chiuse nello studio. Lesse le prime tre pagine con grande enfasi, dopo di che, capì che forse non era il caso di soffermarsi sui dettagli e cominciò a leggere una riga si ed una no. Poi passò ad una si e tre no. In fine, decise di leggere solo l’ultimo capitolo, lasciando all’immaginazione tutti gli altri. Dopo circa due ore chiuse il libro e soddisfatto, tornò quatto quatto dentro il letto.
Per la cronaca, il riassunto non lo scrisse mai e il giorno dopo, come tutti gli altri successivi, nessuna maestra gli chiese più nulla di quel riassunto. Sempre per la cronaca, quel libricino che tanto poco colpì la fantasia del bambino era “Il gabbiano Jonathan Livingston” (Jonathan Livingston Seagull) di Richard Bach. Libro pubblicato nel 1970 e che dopo due anni, era già stato stampato in un milione di copie.
A distanza di tanti anni, quel bambino (ora una quarantina di centimetri più alto) decise di rileggere il libro. Quello stesso libro (con le pagine un po’ ingiallite) che a otto anni proprio non era riuscito ad apprezzare. Stavolta lo lesse tutto d'un fiato, e in poco meno di un’ora. Poi tenne tra le mani il libricino, accarezzò con le dita la copertina e chiuse gli occhi, tornando con la mente a quella notte di venti anni prima.
Prese un foglio bianco e cominciò a scrivere il riassunto. Anche in questo caso, seppur nobile, il gesto non poté che apparirgli piuttosto tardivo.

martedì 30 aprile 2013

Contro il logorio della vita moderna...


Qual è il posto più strano deve avete letto un libro? Potrei rispondere a 10 mila metri d’altezza, oppure 400 metri sotto il livello del mare (quando sono stato sul Mar Morto, seppur non ricordo di aver letto qualcosa di più consistente di una brochure illustrativa in ebraico). Ma quello che mi interessa raccontare, stasera, non è tanto di una fantastica avventura in cima ad un vulcano, mentre declamo la lettera di Plinio a Tacito sull’eruzione del Vesuvio, quanto di una rilassante oretta trascorsa nel giardino di casa.
La storia si svolge in un ridente tardo pomeriggio di fine aprile, in una ridente borgata all’estremo sud di Roma, in un ridente giardino, che tre giorni d’estate anticipata hanno trasformato in un’esplosione di colori, profumi e gatti dei vicini che scavalcano muretti e si avventurano tra l’erba. Dopo una giornata di lavoro, non c’è niente di meglio, soprattutto quando non hai altro da fare, che sedersi nel bel mezzo del giardino e godersi la luce del giorno che piano piano cala, la sensazione dei piedi nudi sull’erba, le rose che si arrampicano su muretti dove, fino a pochi secondi prima, gatti valutavano l’altezza e si gettavano sul prato. Il quadro non sarebbe completo se non ci fosse un libro al centro della scena. Quel libro che riesci a leggere solo la sera, tra le coperte, ma che devi abbandonare dopo poco, vinto dal sonno e dalla sensazione di aver letto per sette le volte la stessa frase e non essere comunque riuscito a capirla. Adesso però hai un’oretta tutta per te, anzi, per voi, perché il libro è il tuo amico fedele, che non si è offeso nonostante tu lo abbia mandato in bianco nelle ultime sere e adesso è li, tra le tue mani.
Come la definireste una scena così? La perfezione? Più o meno, anche perché l’anticipo d’estate ha portato con sé tutto, tranne una cosa: le zanzare. Incredibile! Il tuo giardino, che di solito da metà maggio a metà settembre si trasforma in un continente di zanzare pronte a cibarsi di te, ora, a fine aprile, è solo preda di qualche ape solitaria e di formiche che si arrampicano in lunghe file sugli alberi, ben contente di non avere nulla a che fare con te e con i tuoi piedi stanchi che affondano nella loro erba. Esisterà mai un posto così bello come il mio giardino? Esisterà un altro posto nel mondo dove in questo momento, con questo fresco, con questo silenzio, con questo libro, qualcun altro come me starà pensando le stesse cose e le starà scrivendo sopra un foglio? La cosa non mi sfiora neanche un po’, a differenza della gatta, che sfiora la mia gamba e mi riporta alla realtà. La luce è scesa, con le maniche corte non fa più così caldo, il libro è rimasto fermo alla stessa pagina di ieri sera.
Ma che importa, per me e per il mio alter ego in giro per il mondo, è pronto in tavola.

lunedì 29 aprile 2013

La vita, l'Universo e Douglas Adams


Sabato 25 maggio sarà un giorno molto importante per la storia dell’umanità. E non solo perché sarà un sabato, motivo che da solo già meriterebbe scroscianti applausi di approvazione, ma perché si festeggerà la tredicesima edizione del “Towel Day”, ovvero, la giornata dell’asciugamano.
Tredici anni fa, esattamente l’11 maggio del 2001, moriva Douglas Adams, sceneggiatore e scrittore britannico, noto ai più, per essere il padre della fortunata serie radiofonica (poi trascritta in libri) de: “Guida galattica per autostoppisti” (The Hitchhiker's Guide to the Galaxy). Qualche giorno dopo la sua prematura morte (Adams aveva 49 anni e morì per un attacco cardiaco dopo una seduta di palestra, occhio a voler fare i fighi), i suoi fan, vedovi inconsolabili, decisero di ricordarlo istituendo per l’appunto il “Towel Day” in onore proprio dell’asciugamano, elemento indispensabile, secondo la "guida galattica", per tutti gli autostoppisti che vogliono viaggiare nell’universo e avere con se uno strumento multiuso. L’idea piacque talmente tanto che le edizioni si sono susseguite negli anni e il fenomeno ha raggiunto anche l’Italia, tant’è che quest’anno, nella ridente Sacile (ameno paesino di poco più di ventimila abitanti in provincia di Pordenone), organizzeranno una grande rimpatriata in un pub e passeranno la serata ad ubriacarsi e a decantare versi delle opere dell’Adams (immagino in dialetto friulano).
Detto che purtroppo non potrò essere dei loro, vista la distanza geografica e impegni di qualsivoglia tipo precedentemente presi, c’è da dire che il compianto Adams meriterebbe, anche in Italia, una maggior considerazione, visto l’alto livello di genialità che si cela dietro le sue opere. Se avete amato il film “Guida galattica per autostoppisti" non potete non leggere il primo dei cinque libri della serie, intitolato, a sorpresa, proprio "Guida galattica per autostoppisti". Vi consiglio caldamente anche il secondo “Ristorante al termine dell’Universo” ancora più divertente e surreale. A mio avviso gli altri tre si perdono un pochino, ma tanto, una volta letti i primi due, non potrete più fermarvi e vi piaccia o no, ve li divorerete, con buona pace di chi, come me, non ha mai apprezzato Star Trek, ma si è innamorato dell’umorismo di Douglas Adams, al quale dedico questo mio primo post, con tutta l’invidia che c’è, per il suo meraviglioso modo di scrivere.
Caro Adams, vorrei scrivere proprio come te, ma per sicurezza, dopo i quaranta, eviterò di andare in palestra. Hai visto mai.
 
 

Poche idee, ma confuse

Sono le 23:50 del 28 aprile 2013.
Comincio a scrivere le prime parole di questo post, senza sapere ancora bene di cosa parlerò davvero (nel blog intendo), né quanto tempo e affetto riuscirò a dedicare a questa piccola nuova avventura.
In tutta onestà, non mi interessa.
L'importante è aver cominciato, l'importante è essere qui ed essermi buttato. Non è mai troppo tardi per poter cominciare qualche cosa che si è sempre sognato di fare. Ora che ci penso però, non è che fondare un blog sia mai stato nella lista dei miei sogni.
Ma poco importa.
Ho esordito dicendo che non so ancora bene di cosa parlerò, non posso starmi a scervellare per capire anche per quale ragione lo farò.
By the way, come dicono gli inglesi: alea iacta est, come dicevano i latini. Io mi butto, poi si vedrà.
Sono le 23:59.
Benvenuti su "l'odore del libro".
Si comincia.

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