domenica 30 novembre 2014

Come la nave lascia la scia, io ti lascio er flusso de coscienza mia

Da grande vorrei fare lo scrittore. Lo dico da anni lo so, ma questo non è un interrogatorio, ma un flusso di coscienza che scorre leggero, quindi concedetemi di ripetermi. Volevo e vorrei fare lo scrittore. Ancora. Il problema è che non mi ci sono mai messo sotto davvero. Si, qualche storiella carina, qualche post su Facebook ad effetto. Ma vuoi mettere con lo scrivere un bel libro e provare a farselo pubblicare? Ecco, quando mi metto sotto con l’idea di scrivere davvero un libro, mi blocco. Il motivo è semplice: mi manca un’idea. Anzi, mi manca l’idea. Nel senso che di storielle semplici da sviluppare ed allungare un po’ ce ne sarebbero mille ma io cerco quella che in primis piaccia a me, così da poterla raccontare e creare qualcosa che spero possa piacere anche ad altri. Se sono io il primo a non essere convinto, come spero di conquistare un pubblico?

Perché dico tutto questo? Perché forse dovrei impormelo sto proposito di cominciare a scrivere a prescindere, anche se la storiella mi sembra trita e ritrita o poco credibile. In fondo, penso, si scrivono libri da quando è nata la scrittura, ci potrà anche stare che ci si sia inventato tutto e non ci sia più nulla di originale da proporre, no? Forse potrei decidere di scendere a patti con me stesso: scrivi e basta, senza aspettare che in sogno ti appaia la storia perfetta. Tu scrivi, e nel frattempo concentrati su come scrivi, che magari parli anche di banalità ma riesci a farlo in modo divertente. Prendi ad esempio il bugiardino delle medicine. Cosa c’è di più stantio? Magari ti basterebbe riscriverlo al computer e cambiare qualche parola, giocando un poco di fantasia, ed ecco una trovata deliziosa che tutti capirebbero e che forse solo in duecentocinquantamila scrittori hanno già proposto.



Che strazio dover combattere crociate contro la letteratura da 5 euro (romanzi rosa o erotici che scriverebbe anche mio cugino di otto anni) e poi realizzare che solo quei romanzi tirano. Devo davvero arrendermi alla mediocrità, al “già scritto” e dar vita ad un romanzo che io per primo incendierei alla sagra del buon gusto? Beato Marco Malvaldi, che a parte il fatto che è pisano (e si sa, i toscani si odiano tutti tra di loro ma tutti odiano Pisa), è il mio modello di romanziere mito. Questo tale, non solo ha scritto diversi gialli in pochi anni, ma questi gialli sono divertentissimi e scritti con uno stile di fronte al quale mi prostro e chiedo umilmente ispirazione. 

L’ultimo libro che ho letto è Odore di chiuso, un gialletto (per altro non eccessivamente intricato) ambientato in un casale toscano di fine ottocento. Cosa c’è di originale in un giallo? Niente maledizione! Eppure lui ne ha scritti diversi e li ha scritti meravigliosamente bene. In attesa di capire quando e se scenderò a patti con il mio ego per qualcosa di banale (ma lungo), faccio il tifo per un po’ di febbre. Siete curiosi di leggere la mia versione del bugiardino

sabato 1 novembre 2014

Avete presente quelli che la mattina presto cercano cose di valore perse sulla spiaggia? Chi dorme non piglia Rolex.

Ho sempre diffidato delle classifiche dei libri più venduti, o peggio ancora, dei “dieci libri consigliati” in una libreria. E’ vero che un libro è un libro, che basta leggere che si impara comunque qualcosa, ma un conto è leggere quello che ci piace, un conto è leggere quello che ci viene imposto. Se ci pensate, tutti noi durante la vita, leggiamo più o meno gli stessi libri; da quando a scuola ci impongono i soliti romanzi da almeno quarant’anni, a quando in una libreria, chiediamo un consiglio su un libro da regalare e ci vengono proposti sempre tre/quattro nomi degli autori di moda in quel momento. Ripeto, non è che sia sbagliato di base, ma a me non piace l’idea che ci debba essere qualcuno che decida per me, cosa è un "capo-lavoravo della letteratura" e cosa no. Ecco perché ogni tanto vado in biblioteca e mi trasformo in rabdomante, che tra le migliaia di libri impilati in freddi ripiani di alluminio, cerca quel volume che lo attiri, che gli chieda semplicemente: “Scegli me, leggimi”. Attenzione, è importante scegliere la biblioteca e non la libreria, sempre per il principio che in libreria tenderemmo a scegliere un libro che viene messo in prima fila da altri, non dal caso, come in una biblioteca (che al massimo usa come guida l’ordine alfabetico). 


Ed eccomi finalmente al motivo di questo post: l’elogio smodato de “L’Isola delle femmine” di Domenico Campana, giunto tra le mie mani proprio dopo qualche minuto di riflessione tra i piccoli corridoi della biblioteca che frequento. Che bella la copertina. Intrigante anche il titolo. Speriamo che mi colpisca anche la sinossi e stiamo a posto. Allora: “Primi anni del Regno d’Italia. Il questore di Palermo viene trovato morto in una casa di piacere. Un semplice incidente? Il delegato di polizia giunto da Roma non la pensa così (...)”. Perfetto! E’ un giallo e quindi mi incuriosisce; c’è un po’ di storia d’Italia e quindi un punto in più; ambientato in una città che non conosco quindi voglia di scoprirla; e infine il protagonista è pure romano. Sei mio. E così è stato. 

Solo leggendolo ho poi scoperto che il libro è appassionante davvero. Scritto in un italiano molto elegante e quasi più vicino ad un saggio sullo spirito umano che ad un racconto giallo. Diciamo subito che l’assassino si scopre a metà libro, ma questo non rende l’altra metà noiosa anzi, è tutto un susseguirsi di nuove scatole cinesi che si aprono ed esami di coscienza del suddetto romano, che alla fine scoprirà di essere ormai troppo legato a quella città (Palermo), per poter pensare di vivere altrove. 

Eccovi dunque un consiglio riassuntivo: ogni tanto, leggete o comprate un libro che nessuno ha letto, che nessuno vi consiglia e del quale, come in questo caso, l’autore non ha nemmeno una pagina bibliografica su Wikipedia (bleah, che sfigato!). Non è detto che vi dica sempre bene ovvio, mica tutti i libri che nessuno legge devono essere per forza capolavori, ma in fondo, tra l’ennesimo libro di Volo, Camilleri, Manfredi ecc... (che mica sto a di' che so pippe è, magara venderebbe come loro), se per una volta leggeste qualche sconosciuto, rischierete solo di restare piacevolmente sorpresi. Montalbano sono.  

giovedì 23 ottobre 2014

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di mercatino dell’usato in mercatino dell’usato


E’ un po’ che non leggo un bel libro, principalmente perché non ho tempo e secondariamente perché quando ho tempo, preferisco fare altro, tipo relazionarmi con il gentil sesso. Non leggendo libri dunque, non scrivo più articoli e la cosa devo dire mi dispiace, forse molto di più del fatto in sé di non leggere. Ecco perché ho deciso di buttar giù queste righe, primo per farmi “sentire” dopo qualche mese, poi per stimolare la mente, hai visto mai tornasse l’ispirazione per la lettura (senza che se ne vada, si spera, quella per il suddetto gentil sesso). In effetti un libro lo avrei anche letto recentemente, ma contrariamente a quanto faccio di solito, mi sono buttato sulla saggistica piuttosto che sui romanzi.

Andiamo per ordine. A Mostacciano, ridente quartiere periferico di Roma sud sud sud, c’è un mercatino dell’usato che da quel che so dovrebbe essere una specie di franchising sparso per lo Stivale. Questo mercatino (che poi è enorme ed è al coperto), ha il pregio di avere un sacco di bellissimi oggetti di antiquariato in legno (che io amo anche se non saprei dove mettere), vinili (che io amo e quelli so dove metterli) e libri usati (che io amo sia perché so dove metterli sia per il prezzo irrisorio). Quando non ho nulla da fare e la Stella Cometa nel cielo mi porta in pellegrinaggio a Mostacciano, faccio sempre un salto al mercatino e compro qualche libro, anche se so che non lo leggerò mai. Tanto costano poco (dovrei scrivere un post su quanti libri ho comprato e sono anni che aspettano che io li legga). L’ultima volta ho comprato un libro sulla numerologia, antica scienza (se scienza vogliamo chiamarla, anzi, chiamiamola disciplina) che studia i numeri, o meglio la funzione magica dei numeri. Il fatto che non riesca nemmeno a spiegare cosa sia la numerologia dovrebbe di per se farvi capire quanto questo libro mi abbia aperto la mente, ma a dire il vero il libro mi è piaciuto, proprio perché lo scopo dell’autore (un tale che insegna Shakespeare nelle università americane ma che nel tempo libero studia l’occultismo), non era quello di scrivere un trattato di numerologia, bensì dare un’alternativa gratuita al lettore, per auto-predirsi il futuro con i numeri. 

Partendo dal presupposto che per la numerologia i numeri da prendere in considerazione sono solo dall’1 al 9 (e occhio che il 9 porta pure sfiga a quanto dire) ho scoperto, in base al nome e alla data di nascita, che il numero del mio destino è il 2, mentre quello che guida il mio cammino attraverso questa vita è il 5. Vi chiederete che cosa possa interessare me e soprattutto voi, tutto questo. Nulla, appunto. Però il libro è scorrevole e tutto sommato divertente, cosa che non mi aspetterei certo da un saggio. Considerando poi che non sapevo nulla dell’argomento, non può che avermi insegnato qualcosa, da usare in un futuro come vorrò, magari vincendo dei soldi a “chi vuol essere milionario” con una bella domandona sulla numerologia (a proposito, lo fanno ancora il programma?).

La morale di questo post, iniziato come esercizio di stile per tenermi in forma con la scrittura, è in fondo quella di invitarvi, ogni tanto, a leggere qualcosa che non avreste mai pensato di leggere nella vostra vita. Probabilmente non vi cambierà la giornata né sicuramente vi spingerà a licenziarvi e a buttarvi sulla lettura dei tarocchi a Via del Corso, ma certamente vi lascerà un qualcosa e comunque, potrà sempre rivelarsi un argomento utile da tirar fuori in discoteca, quando a l’ennesimo rifiuto della polacca in trasferta a Roma, giocherete la vostra ultima carta chiedendo: “Qual è il tuo numero del sentiero?”. Non rimedierete un bacio, ma se il suo numero sarà 9, almeno saprete che la tipa avrà una vita piuttosto sfortuna. Tiè, pija e porta a Varsavia.

martedì 16 settembre 2014

Buon uomo, può passarmi quell'Italo Calvino per cortesia?



Leggo “Storie di ordinaria follia” di Charles Bukowski e ad un certo punto appare un nome: Chinaski. Dove l’ho già sentito sto nome, mi domando. Chinaski, Chinaski. Aspetta, era qualcosa del tipo: Mr Chinaski. Ecco si. Mr Chinaski, Mr Chinaski. Ma certo. My name is Tanino. Quando Tanino arriva negli Stati Uniti, tra le prime persone che va a cercare, oltre ad una bella americanina conosciuta in Sicilia, c’è proprio questo Chinaski. Nel film è un vecchio regista sgangherato, che muore tra l’altro, la stessa notte che conosce Tanino. Quindi ho appena scoperto che nel film c’è un omaggio velato a Bukowski. Ed io che pensavo di sapere tutto di quel film. Che capolavoro ragazzi. Guardatelo e zitti. 



Continuo a leggere Bukowski e mi viene il dubbio che nella vita abbia sbagliato totalmente modo di vedere le cose. Sono dell’idea che quando un autore è famoso e letto da tutti, io automaticamente non lo debba leggere, perché nella mia visione del mondo voglio ergermi ad alternativo della letteratura e dedicarmi a letture che non siano di moda (ma che spesso son pallose!). Allora Dio benedica chi me lo ha prestato questo “Storie di ordinaria follia” e m’ha detto semplicemente: leggi e zitto. Mi ha permesso di capire quanto mi sbagliassi sull’idea che se un autore lo leggon tutti, allora deve far schifo ed essere commerciale. 

In questo libro, nel dettaglio, ci sono una serie di storielle, dalle cinque alle venti paginette, dove il tema è sempre lo stesso: il sesso. Ma è un sesso divertente, che non esalta i protagonisti per la loro virilità, ma li deride per il loro essere semplicemente esseri umani. Non c’è storia poi, in cui il protagonista o le comparse, non si scolino litri di alcool, possibilmente birra. E vi posso assicurare che si parla talmente tanto di birra e whisky che uno alla fine si convince ad alzarsi dal divano e andarsi ad aprire davvero una birra. Altro che pubblicità subliminale. Molte delle storie, si dice, siano state ispirate da esperienze reali vissute da Bukowski, altre dico io, molto probabilmente sono frutto di racconti da bar, fatto sta che il tutto è terribilmente piacevole e che un enorme applauso va fatto a chi questo libro l’ha tradotto in italiano, perché si riesce ad avere comunque una minima idea di come deve suonare in originale, nello slang più slang possibile dell’inglese americano da bettole.

Non so se mi succederà come con Douglas Adams o Bruce Chatwin, per cui dopo aver letto un libro ho voluto leggere tutti gli altri, ma se anche fosse, mi sembra che questo Bukowski valga la pena di essere approfondito, quanto meno per passare piacevolmente il tempo quando si è sotto l’ombrellone, anche se siamo quasi in Ottobre. D’altronde, come si dice, solo gli stupidi non cambiano idea. Ed io sulla storia della letteratura alternativa, stupido fui. Ora posso mettermi il cuore in pace ed aprire finalmente Calvino, che non ho mai voluto leggere perché tutti adoravano. Poi passerò a Federico Moccia. Ma lì secondo me, saranno cazzi. Io e te, tre metri sopra Tanino.

giovedì 5 giugno 2014

Comprami, io sono in vendita, ma non mi credere irraggiungibile

Meglio di un mercatino dell’usato che vende libri c’è solo una cosa: la biblioteca. Solo che in biblioteca le cose le devi riportare, al mercatino invece ti porti tutto via, e spendi per un libro quanto faresti per comprare tre biglietti dell’autobus (sempre se li compri). Un’ora davanti ad una decina di scaffali, irti di libri, catalogati in ordine alfabetico d’autore. Tutto a 3, 4, massimo 5 euro. Va bé, mi tremano le gambe, sento che il demone della cultura a poco prezzo sta per impossessarsi di me. Chiamate un esorcista, e ditegli di portare un carrello. C’è da riempirlo. 

La Marcia di Radetzky” di Joseph Roth, mi sorride con la sua copertina marroncino triste a cui fa da contraltare però, un’introduzione invitante: romanzo storico sull’apogeo e caduta dell’Impero-Austroungarico. Capirai, e quando me lo faccio scappare. Qui c’è il rischio di leggersi 420 pagine tutte di un fiato, e a soli 3,90 euro. Ma da qui comincia un’altra storia, non quella della battaglia di Solferino né quella della Prima Guerra Mondiale vista dagli occhi del nemico austriaco. Qui inizia la storia dell’eterna lotta tra libro e lettore, dell’eterna lotta nella quale si vince o si perde, ma mai si pareggia. Un libro o lo finisci o lo abbandoni, e quando lo abbandoni, la sconfitta è bruciante e il senso d’amarezza t’invade. Ma poi mi domando: meglio il senso d’amarezza o peggio la pesantezza di passare sere a leggere pagine che non ti attraggono e ad aspettare nella storia, svolte che non arrivano? 

Voi da che parte state? Siete quelli che un libro non lo mollereste mai, anche se aveste cominciato, per errore, a leggere un manuale di fisica nucleare in papuanuovoguineiano? (senza figure!). O avete il coraggio di dire basta, se proprio un libro non vi ispira? Se appartenete a quest’ultima categoria, io sono con voi, fratelli. “La Marcia di Radetzky” sarà pure sto capolavoro della letteratura, ma dopo 10 pagine ho sentito la sensazione di lentezza invadermi il corpo e dopo 20, l’orologio dell’entusiasmo non è rallentato, s’è proprio fermato. Per arrivare a pagina 73 c’ho messo un mese, ed in mezzo c’ho piazzato un paio di libri letti contemporaneamente, qualche rivista scientifica ed un Dylan Dog, che non guasta mai. Archivio il libro e con lui l’interesse per l’Impero Austroungarico, d’altronde, se sono stati nostri nemici in trecentoventicinque mila guerre, un motivo di sarà stato. E’ un’antipatia da DNA, che il libro del fu Joseph Roth ha solo che confermato. 

Peccato, perché qualche bella descrizione di qualche tramonto oltre le colline c’era, come c’era l’idea del profumo di erba che veniva dagli immensi spazi aperti delle pianure del centro Europa. Forse sarà che non c’era il mare e che per vederlo, il protagonista si sarebbe dovuto fare chissà quanti giorni di cavallo. A sto punto mi faccio tre ore di fila sulla Pontina. A Terracina ce l’avranno Dylan Dog?

lunedì 2 giugno 2014

Capita anche a te, di pensare che al di là del mare.

L’ultima e unica volta che sono stato in Sardegna avevo sei anni. Ho tre ricordi sfocati: le mie gambe immerse in un freddo mare di maggio dopo una lunga passeggiata su una spiaggia di sabbia finissima, le curve strette e le discese ripide e una macchina con i sedili di pelo grigio e la nausea che non ti abbandona, e l’assoluta, perfetta ed unica bellezza di Tharros, che a distanza di 23 anni è ancora per me la cosa più affascinante ed emozionante mai vista. Non sono più tornato in Sardegna e sinceramente, non ho mai pensato davvero di tornarci. L’ho sempre vista come un posto da vacanze per ricchi; un posto in fondo già visto, anche se a pochi anni; al massimo un posto da vedere, si, ma più in là, dopo essermi fatto prima rapire dalle altre mille sfaccettature che colorano il mondo. 

Eppure, se solo sapessi davvero cosa si nasconde dentro la Sardegna, oltre le barche dei vip, oltre le leggende dei rapimenti, oltre l’immagine di un’isola che sembra un enorme rettangolo, di cui tutti conoscono il perimetro bagnato dal mare e pochi sanno cosa c’è nell’area, nel cuore. Se solo sapessi cosa si cela dietro la maschera che la televisione le dà, entrare in un mondo dove non si parla un dialetto, ma una lingua vera e propria, dove il rapporto con gli animali e la natura è come era secoli fa, dove le tradizioni, i riti e i misteri non hanno nulla a che invidiare al fascino che emana un’India induista o un’Africa di spiriti maligni. S’accabadora, nella cultura sarda, è colei che aiuta i morti a morire, o meglio, coloro che non sono altro più che pelle ed ossa, a fare l’ultimo passo verso la morte. Né più né meno un’eutanasia. Prima che il mondo sentisse il bisogno, attraverso dibattiti TV, di interrogarsi sul perché e sul per come di certe morti, l’uomo, nei secoli, ha trovato il modo di fare da sé, istituzionalizzando certi riti, rendendoli  palesi ed accettati da tutti, non come un peccato furtivo da nascondere, ma come una benedizione: per chi va e per chi resta. 

Michela Murgia, nel suo “Accabadora” racconta uno spaccato della Sardegna misteriosa, della Sardegna che nessuno conosce, e lo fa toccando con bravura e un pizzico di ironia, un tema che ai più, può sembrare pesante come una montagna. Quale modo migliore però, per parlare di un tema così, se non decantandolo, diluendolo in un romanzo, ambientato negli anni 50 del Novecento e per questo visto come lontano, meno pericoloso, meno reale. Immergiamoci in una Sardegna che parla di sé stessa attraverso cuccioli di cane murati vivi per maledire i confini di un terreno, negli occhi di un contadino che vede il mare per la prima volta nella sua vita e ne fugge terrorizzato, nei “fill’e anima” tolti alla loro famiglia e adottati da un’altra, nel vento caldo del sud che la notte accarezza l’erba leggera arsa dal sole del mezzogiorno estivo.

Immergiamoci in una storia scritta scegliendo una ad una le parole e componendole in un’armonia perfetta, a dar forma ad un libro tra i più belli e meglio scritti che io abbia mai letto, a comporre un romanzo su un’Isola che tutti conoscono e pochi sanno. Immergiamoci sapendo bene chi siamo mentre mettiamo la testa sotto l’acqua ma senza la certezza di rimanere gli stessi quando la tireremo fuori, quando avremo trovato davanti a noi, il motivo per cui ci siamo tuffati: la ricerca della verità, la ricerca di quello che eravamo e quello che, anche negandolo, sempre saremo. Solo un mare separa noi dalla Sardegna, solo un mare separa quello che eravamo, da quello che qui ci siamo dimenticati di essere: santi, diavoli, uomini.
 

mercoledì 21 maggio 2014

It's raining man! Thank you Giove!

Adriano non era come la maggior parte dei romani dell’epoca: bisex. Adriano era proprio gay. Anzi, era quel tipo di gay che con le donne non ci va nemmeno troppo d’accordo, soprattutto con la moglie, che era stato costretto a sposare per esigenze di facciata ma dalla quale non ebbe né figli né felicità coniugale. D’altronde, Adriano aveva già il suo bel da fare per il mondo, non poteva mica occuparsi della moglie o farsi venire turbe mentali sul perché, quando lei era a Roma lui era a Tivoli o perché, quando lui usciva di casa a comprare le sigarette o a pacificare Gerusalemme, poi rientrava sempre dopo qualche anno, e non chiamava mai a casa.
Quando divenne imperatore, a quarant’anni, decise finalmente che era arrivato il momento di rilassarsi e godersi i piaceri che il suo ruolo offriva. Voleva fondare una città? La fondava. Voleva che la cultura greca si espandesse per l’impero? Ed ecco aprire scuole greche a gogo. Voleva fuggire dal traffico e dal rumore di una Roma che superava il milione di abitanti? Ecco Villa Adriana, a Tivoli, con il cielo stellato e mille servi tutti per se. 
Il mio regno per un cavallo, diceva Riccardo III d’Inghilterra tramite la penna di Shakespeare; un maschietto per il mio regno, diceva Adriano, che si invaghì perdutamente del turco Antinoo, splendido quindicenne, le cui statue oggi adornano centinaia di musei in tutto il mondo. Antinoo, lo schiavo che divenne il preferito dell’imperatore e che ebbe il mondo allora conosciuto ai suoi piedi, finché un giorno il Nilo non lo portò via, affogato o suicida, non si sa, quando aveva appena vent’anni. 

Cammini per Villa Adriana, oggi, e provi ad immaginare come potesse essere un tempo. Impossibile, perché millenni di storia ne hanno cancellato il cuore, lasciando solo qualche contorno sfocato. Ma se si alzano gli occhi al cielo, se si guarda verso l’orizzonte, le montagne che circondano la Villa son rimaste le stesse, gli stessi boschi, gli stessi uccelli, gli stessi fruscii leggeri, notturni, quando nemmeno il rumore delle macchine riesce a disturbare il sacro silenzio di questi viali di terra e leggenda. Un’ora e mezza di cavallo distanziavano il Palatino da Tivoli, oggi con dieci minuti di rapida autostrada, il sentiero si trasforma in asfalto e la stalla per cavalli stanchi in casello. Tutto sembra perduto, tutto sembra lontano e così impossibile da rivivere. L’idea che Roma fosse non una città ma un ideale, un sogno, non mattoni di case ma un corpo unico di uomo, un simbolo per cui combattere e morire. 

Non ha molto senso questo post, lo ammetto, sono giorni che cerco di scrivere qualcosa, ma poi disfo e cancello tutto. Non c’è un motivo per il quale dovreste leggere “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar se non che è un libro che va letto, come se fosse un passaggio obbligato nella vita di ognuno, soprattutto se nato e cresciuto in questa nostra Urbe. Immaginate le piccole frasi di recensioni che si leggono dietro i libri quando si compra un bestseller: fantastico, unico, da brividi, e giù nomi noti di note riviste o giornali di tutto il mondo. Ecco, se io dovessi recensire questo libro e scrivere due righe dietro la copertina, tanto per invogliare a leggerlo, direi: “Se siete analfabeti e qualcuno vi sta leggendo queste righe, sappiate che l’unico motivo per cui dovreste imparare a leggere, ce lo ha il vostro amico tra le mani”.  

sabato 12 aprile 2014

Se niente importa, niente è da salvare

Se mi chiedeste se da domani, decidessi volontariamente di non mangiare più una fiorentina o il sushi, io vi risponderei senza dubbio: no. Mi piace la carne al sangue e adoro il sapore del sashimi che si scioglie in bocca. Al massimo, e questa è una cosa che posso e voglio fare, potrei mangiarne di meno, o meglio ancora, mangiarne solo in posti in cui so con quale processo sono finiti nel mio piatto. L’unico modo per esserne certi però, nel caso del sushi ad esempio, sarebbe quello di cucinarselo da soli, andando a comprare il pescato direttamente al porto, magari da piccoli pescherecci a conduzione familiare e poi prepararlo in casa. Stesso procedimento per la carne, magari comprata direttamente dal produttore, con la certezza che, stante la morte inevitabile dell’animale, quanto meno questo abbia vissuto bene, mangiando cose sane e vivendo una vita in comunità, come la lunga storia dell’allevamento ha sempre dettato negli ultimi millenni. Non è un passaggio facile ovviamente (e infatti non sto qui a dire che lo farò sistematicamente e quotidianamente) ma è quanto meno un modo per essere un pochino più consapevoli di quello che mangiamo, senza dare per scontato che quello che ci viene venduto al banco frigo sia il meglio del meglio e soprattutto, sia l’unica alternativa che abbiamo. Certo, comprare carne direttamente dal produttore costa di più, ma garantisce standard di qualità e gusto cui la produzione industriale non può minimamente competere. Sempre che la produzione industriale voglia effettivamente competere, cosa che sembra difficile credere, visiti i metodi utilizzati. “Se niente importa (Perché mangiamo gli animali?)” di Jonathan Safran Foer è un bello spaccato sulla realtà industriale con cui viene allevata, uccisa e distribuita la carne e il pesce a livello statunitense (e in parte mondiale). L’obiettivo dello scrittore non è quello di rendere il lettore vegetariano ma di metterlo al corrente di cosa c’è dentro il suo piatto; trasformarlo da consumatore automatico in consumatore informato. Poi starà a noi decidere se ignorare i fatti o scegliere un’alternativa.

Quello di Foer non è certamente il primo libro sull’argomento, né certo sarà l’ultimo. Ci sono su internet centinaia di video che documentano le atrocità commesse nel sistema di allevamento e mattanza di polli, maiali e bovini, e sono certo al mondo (quanto meno quello occidentale) non c'è persona che non abbia visto almeno una volta uno di questi video e che non sappia quale sia il destino di queste bestie. Il fatto è, e qui mi chiamo in causa per primo, che quelle immagini noi le ignoriamo; ci rattristiamo, ci indigniamo per un minuto, ma poi usciamo e mangiamo un panino da Mc o torniamo a casa la domenica e affoghiamo nella pasta al ragù di mamma. E’ una colpa? No, o meglio si, ma altrettanto o forse meno, del cambiare canale di fronte agli sbarchi di Lampedusa o rinchiudere un anziano dentro una casa di riposo e lasciarlo in balia di estranei. La questione comunque , qui e nel libro, ripeto, non è farci sentire una merda come singoli ma farci aprire gli occhi su un dato di fatto e poi, lasciarci scegliere. Foer dice, sostanzialmente, che chi legge questo libro e vede le immagini su youtube, non può che rifiutarsi di mangiare quella carne. È un dato di fatto incontrovertibile. e' la stessa nostra natura umana che dovrebbe impedircelo. Io dico che, se anche decidessimo comunque di continuare a mangiare la carne, quanto meno varrebbe la pena vederle quelle immagini e soprattutto, leggere questo libro (che tra l’altro costa 12 euro, quindi nemmeno tanto), perché è sempre meglio un’informazione in più che una in meno.

Chiudo sfatando un mito, almeno in parte. Chi possa pensare che “in Italia però è diverso”, si sbaglia. Magari non sarà come negli USA, in cui più del 95% della carne consumata viene da allevamento intensivo, ma anche qui le stragi silenziose esistono e anche qui, gli animali vengono uccisi nei modi più barbari e contro ogni morale ed etica umana (attenzione, non dico è sbagliato uccidere, ma è sbagliato uccidere facendo soffrire).Sul libro non se ne parla, ma su internet si. Fateci un giro. Parola di Francesco Amadori.

giovedì 3 aprile 2014

La granita alla mandorla, con il pane al sesamo, è la morte sua

Prima di partire per un viaggio, qualunque viaggio, sarebbe sempre meglio informarsi su quello che si andrà a vedere. Non parlo però di posti, o chiese, o locali, parlo della gente, degli usi e costumi e modi di essere delle persone che abitano il posto che andremo a visitare. Il modo migliore per conoscere davvero un luogo, un popolo, prima ancora di vederlo, non è comprando una guida turistica, ma leggendo un libro che in quel posto sia ambientato. Così, prima di partire per Catania, ho deciso di andare in libreria e cercare un romanzo che mi raccontasse della Sicilia e mi facesse immergere in quello che di lì a pochi giorni avrei visto. Sicilia, Sicilia, Sicilia e subito, come un lampo, ho capito cosa avrei dovuto cercare: “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini. Vittorini non si studia a scuola, o meglio, io non l’ho studiato. La Sicilia la si scopre solo attraverso gli occhi di Verga e Pirandello, come le ultime generazioni scolastiche, da decenni a questa parte, hanno fatto. Quale modo migliore allora per imparare qualcosa in più, che magari neanche Sciascia mi aveva trasmesso nel suo “Il giorno della Civetta”? 

Il problema è che io, “Conversazione in Sicilia” alla fine, l’ho letto dopo il viaggio, e quindi non è stata la mia personale anticipazione di ciò che avrei visto, ma il racconto di quello che solo in parte avevo assaggiato e che nei prossimi viaggi, giù in Trinacria, vorrei vedere. Come sempre non racconterò nulla del libro né di personaggi né di fatti, ma scrivo di un treno che viaggia lento da Messina a Siracusa e attraversa la costa est, con il mare alla sua sinistra e l’enorme massa dell’Etna alla sua destra. 

Un treno pieno di uomini ed ogni uomo rappresenta un personaggio tipico della sua terra, come potrebbe essere però un personaggio tipico della nazione intera, come in definitiva, potrebbe essere ognuno di noi, dipinto a tratti leggeri sul quel treno. E poi, il capolinea a Siracusa e il cambio di treno, una linea secondaria, interna, che lenta si arrampica verso le montagne del centro dell’Isola, tra fichi d’india e fantasmi di ragazzi che alzano la mano e salutano, apparsi dal nulla e dal nulla inghiottiti, per sempre. Un altro capolinea e un altro viaggio, stavolta a piedi, attraverso il passato che ritorna, che piano piano riemerge, passo dopo passo, tra una madre che racconta al protagonista della sua infanzia e un paese intero che racconta se stesso: tra malaria, soldati che partono per la guerra, neve sulle montagne e notti con cieli illuminati da milioni di stelle, il socialismo che resta un’utopia, il fascismo, i cimiteri con i fantasmi, il vino che tutto fa dimenticare, la fame, la sete, il tradimento e l’onore, le vecchie e le giovani sul capezzale che succhiano lumache dal guscio, il cinese che solitario vende mercanzia che nessuno comprerà, la multa per un carrettino da arrotino lasciato di fronte ad una bottega, il freddo intenso sulla nave d’inverno, le arance, il monumento ai caduti. 

Vittorini racconta la Sicilia del 1941, ma è come se in Sicilia nemmeno ci fosse, perché in realtà racconta come un uomo vivesse quel 1941, come lo sentisse un intellettuale, che vagava per la sua terra senza più speranza per il futuro non solo suo ma dell’umanità intera. Non sarà la Sicilia del 2014 né tanto meno lo specchio dell’Italia odierna, ma in fondo, dalla realtà di oggi non è poi tanto lontano, perché se oggi il nostro senso di vuoto non viene più dalla carneficina della guerra o dal buio dei totalitarismi, questo senso di vuoto è rimasto intatto in noi, vivo, e paradossalmente, si è fatto più forte, perché oggi non sappiamo più da cosa stiamo scappando, perché oggi non sappiamo più a cosa aggrapparci, in attesa che la luce fuori dal lungo tunnel si faccia più vicina. Capolinea.


martedì 25 marzo 2014

Chi t'è mmuort e chi t'è stramuort

Come spesso accade, ho letto un libro su suggerimento di qualcuno. Come raramente accade, ho letto un libro su suggerimento di qualcuno morto. Nell’ultimo post scritto, ho parlato di Bruce Chatwin e delle sue lettere indirizzate a parenti e conoscenti sparsi per il globo. Ebbene, in una di queste, citava “La ballata del caffè triste” di Carson McCullers, tessendone le lodi e indicandolo come uno dei racconti più belli mai letti. Segnatomi il titolo su un foglietto, in attesa di trovare il racconto in qualche bancarella di libri usati, il destino ha invece voluto che il suddetto libro lo trovassi in casa, esattamente in un grande scatolone accatastato in un angolo della cantina. Immaginate lo stupore quando, cercando un vecchio libro dell’università tra i tanti ammucchiati a prender polvere, mi sono ritrovato tra le mani proprio “La ballata”, per altro in una vecchia ed odorosa edizione della Bur, con tanto di copertina con caffè parigino di inizio novecento. A quel punto, visto che anche il destino (oltre che il morto) mi indicava la via per il romanzo, l’ho letto, scoprendo, con grande meraviglia, che la signora Carson ci sapeva fare e complimenti anche alla traduttrice, visto che ci siamo.


La storia è ambientata in un paesino del profondo sud statunitense, più o meno negli anni 30, in una cittadina abbandonata da Dio, in cui l’unica attività per la gente era quella di lavorare alla filanda, spazzare l’ingresso di casa dalla polvere e distruggersi il fegato di alcool distillato. In questo ambientino, la scrittrice lancia come dadi su un tabellone, tre personaggi strambi: un donnone proprietaria di un emporio che trasforma in un bar, un gobbo cugino della donnona che arriva vestito di stracci e diventa il re del villaggio e l’ex marito della donnona, appena uscito di galera. La scrittrice lancia i dadi, poi quello che succede succede, si dirà. E difatti la storia è originale, quasi accostabile al nonsense, sempre in bilico tra un palcoscenico che sembra immobile e destinato all'oblio e strambi attori, che invece si muovono eccome e danno colore alla loro esistenza come a quella dell’intero paese, anche se in realtà, restano sempre fermi nello stesso posto. Nessun eroe, nessun personaggio in cui identificarsi, nessun riscatto sociale né lieto fine che salvi il mondo ma un romanzetto da leggere tutto d’un fiato, perdendosi nella fantasia a ricostruire i personaggi con le fattezze più strane che si può.

Maneggiare con cautela però, sempre accompagnati da un sorso di grappa o di whisky perché no, quel tanto che basta per annebbiarvi un po’ e farvi credere davvero che sia stato un morto a suggerirvi quel libro, e quello stesso morto a farvelo trovare. L’eterno riposo dona a loro o Signore e splenda per essi la luce perpetua. Così possono leggere anche di notte.

mercoledì 19 marzo 2014

Vorrei essere te. Morte tra atroci sofferenze esclusa.

Quante volte vi sarà capitato di passeggiare in libreria e di notare un libro che vi rapisse, per la copertina o magari per il titolo. Tornare nella libreria, o in un’altra, una, due, tre volte, e ritrovare sempre lo stesso volume. Stavolta lo compro. No, facciamo la prossima. Gira che ti rigira il libro lo compri e nonostante sul tuo comodino ci sia una colonna di libri da leggere che aspetta pazientemente da mesi di essere domata, tu decidi che quello che comincerai stasera, il prescelto, sarà proprio quello che hai appena comprato, con buona pace di un “Il richiamo della foresta” che scalpita in cima alla colonna da mesi. Questo è stato per me “L’alternativa nomade” di Bruce Chatwin, copertina con foto da urlo (il protagonista in impermeabilone da barca a vela), titolo accattivante, editore tra i migliori e prime due righe della sovracoperta da leccarsi i baffi: “Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto , insopportabile dopo due?”. Ma l’alternativa nomade non è un libro, nemmeno una biografia, è una raccolta di lettere, redatte dallo scrittore Bruce Chatwin, nell’arco di una vita intera e indirizzate ai più svariati amici, nonché ad Elizabeth la moglie e ai genitori (sia di lui che di lei). Dalle prime letterine che mandava a casa dalla scuola (meno di dieci anni), fino alle ultime, dettate in punto di morte, quando l’HIV ne aveva ormai fiaccato il fisico (ma non lo spirito). 


Leggere le sue lettere, prima di leggere le sue opere, è come quando al liceo si studia la vita dei grandi autori, prima di leggerne le opere. Prendiamo Leopardi ad esempio: sappiamo della sua vita triste chiuso tra le mura di Recanati, poi delle sue fughe e poi dei suoi viaggi tra Roma e Napoli. A quel punto leggere le sue poesie da modo di capirle meglio perché si da un senso diverso alle parole sapendo cosa c’è dietro, non solo dal punto di vista dell’analisi delle metafore ma del periodo in cui sono state scritte e cosa stesse vivendo davvero in quel momento l’autore. E’ così che nelle lettere di Chatwin si vedono nascere pian piano le idee sui libri che poi scriverà nel corso degli anni, le sue speranze, i suoi progetti, gli incontri casuali che riporterà nelle opere, i commenti degli amici e la sua insoddisfazione o orgoglio per quel che ha prodotto. 

Non saprò mai se leggendo prima i suoi libri e poi questa raccolta, sarebbe stato il modo migliore per apprezzare ancor di più questo libro, ma so che leggendo questo, la voglia di comprare e leggere i libri restanti c’è eccome. Nell’attesa di approfondire i testi però, si rimane affascinati dalla vita dello scrittore, che finché il fisico glielo ha permesso ha viaggiato in mezzo mondo, non limitandosi solo a guardare ma osservando i luoghi e le persone, mischiandocisi, nel disperato e sempre pressante tentativo di conoscere gli altri per conoscere se stesso. Come si fa a non trovare terribilmente simpatico uno che ha passato la vita a viaggiare e scrivere libri? Uno che mille cose pensava e mille faceva, che sognava di avere una casa in ogni nazione, che odiava gli inverni della sua Inghilterra e sognava primavere nel Mediterraneo, escursioni sull’Himalaya e passeggiate nei silenzi della Patagonia? Tra le tante parole che compongono le centinaia di lettere riportate, c’è una frase che più tra tutte mi ha colpito e che spiega, forse, il motivo per cui una persona che ha viaggiato così tanto e visto così tante cose, in fondo ha scritto solo cinque libri: “Spero che il soggetto per il nuovo libro cominci a germinare, ma per ora al riguardo sento il vuoto totale. Con tutti questi libri improvvisati che girano, io non credo proprio in una scrittura che non sia necessaria”. 
Se mai mi iscrivessi a Lettere e Filosofia, un giorno, saprei già su chi fare la tesi.

sabato 15 febbraio 2014

I just came to say: Rimbaud

Ormai lo avrete capito. Io nei miei articoli del blog non racconto mai la trama del libro. Al massimo, l’accenno. E comunque non entro mai nei particolari. Nel caso di “Nove gradi di libertà” di David Mitchell poi, il compito è reso ancora più facile dal fatto che non è un romanzo, ma una raccolta di nove piccole storie. E che volete, che vi racconti la trama di nove storie? L’idea di Mitchell è carina (anche se non è stato certamente il primo ad inventarla): nove storie, ognuna ambientata e vissuta in posti diversi da personaggi diversi, legate però tra loro da un particolare, un episodio, un personaggio, che in una storia può essere protagonista mentre in un’altra diventa solo comparsa di un minuto.

Sapete poi, che oltre a raccontare poco della trama, solitamente non faccio mai eccessive critiche, anche perché parlo solo libri che mi sono piaciuti, quindi cosa avrei da criticare? Eppure, nonostante nel complesso, quello di Mitchell sia un bel libro, devo dire che, (caso rarissimo visto che di solito è il contrario) ha il difetto di partire bene ma finire male, non come la commedia greca, ma nel senso che tre/quarti dei racconti sono molto belli e coinvolgenti, mentre gli ultimi si perdono un po’ e danno l’idea di ripetersi troppo e di sfiorare eccessivamente il surreale.

Ma lo ripeto (avrò usato troppe volte la parola “ripeto”?), qui lo dico e qui lo nego, “Nove gradi di libertà” è un libro che consiglio, perché anche se non sono un fan del genere (tanti racconti in un solo testo), non pesa il fatto di leggere venti pagine di un racconto e poi dover ricominciare con un altro, anzi, è curioso e stuzzicante andare a scoprire quando, nel racconto successivo, saranno citati eventi o personaggi di quello precedente che però, nel racconto suddetto, non avranno alcuna influenza e saranno come foglie portate dal vento, che restano qualche secondo sulla strada finché il vento se le riporta via. E poi, visto che siamo in tema di eventi casuali e scherzi del destino, in uno dei racconti (ambientato a Londra), il personaggio principale si chiama Marco e quindi può non essermi simpatico il caro Mitchell?

Per la cronaca Marco è un latin lover di donne mature (possibilmente sposate) che vive sopra un pub e di mestiere fa il ghost-writer, guadagnando abbastanza per sopravvivere tre settimane al mese e poi morire di fame l’ultima. E’ o non è il sogno di ogni aspirante scrittore maledetto del XXI secolo? Assenzio, vieni a me.

martedì 11 febbraio 2014

La qualità mi fa male, lo so.

Nella scelta di un libro nuovo da leggere, di solito, mi faccio sempre guidare dal titolo. Difficilmente mi baso sul nome dell’autore e ancora di meno sulla casa editrice. Eppure, a ben pensare, c’è una casa editrice che adoro e i cui titoli in catalogo riescono spesso ad attirare la mia attenzione. Sto parlando della Adelphi Edizioni. I libri Adelphi, in sé, oltre ad essere mediamente interessanti, sono anche fisicamente belli, perché la copertina è liscia, le pagine porose, i caratteri eleganti e tenerli in mano, accarezzarli, dà la sensazione di leggere un qualcosa di prezioso. Ancora una volta Adelphi non mi ha tradito perché l’ultimo libro che mi ha offerto è stato “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Robert M. Pirsig. Non sarà facile raccontare questo libro perché al di la della trama in sé, trasmette sensazioni ed emozioni di difficile interpretazione e di ancor più di difficile capacità di spiegazione. Per sommi capi si tratta di un racconto autobiografico, in cui il padre/autore intraprende un viaggio in moto con il figlio e nel corso di questo viaggio, analizza se stesso e il suo passato, attraverso una serie di flashback che crede di aver sentito raccontanti dalla voce di un’altra persona ma che in realtà sono suoi ricordi. Un po’ complicato vero? Ci sta, anche perché è solo andando avanti nelle pagine che si capiscono certe cose e che la verità sul passato del protagonista viene fuori. Nel frattempo, l’autore filosofeggia intorno ad una sua teoria sulla qualità con cui le cose andrebbero fatte e nel corso del testo cerca di dare una base alla sua tesi, raccontando nel frattempo la storia della filosofia greca, vista dal suo punto di vista. Anche questo è un po’ complicato da raccontare però. 


Attenzione: il libro di per sé non è eccessivamente pesante ma certamente, non può essere definito un romanzetto da leggere a letto la sera se lo si vuole apprezzare nelle sue tante sfumature. Ogni termine ha il suo significato solo se inserito in un contesto e ogni pagina necessita di assoluta concentrazione in quello che si legge, pena, l’idea di non aver letto nulla e di aver solo assaporato e poi perduto, qualcosa di valore. Non imparerete ad aggiustare una motocicletta ma di certo, scoprirete l’arte di leggere un libro pagina per pagina, parola per parola, consci che potrebbe essere un testo che vi illumini il cammino con la sua idea di fondo, come potrebbe annoiarvi già dalle prime battute e risultare più astruso di un libretto d’istruzioni in polacco. Ma certo è, nel caso fosse la via dell’illuminazione a colpirvi, sarà un piacere scoprirvi capaci di leggere un libro di filosofia, quasi riuscendo a capirlo, senza il filtro di un libro di scuola o di un professore che ci metta un mese solo per dirvi che Descartes e Cartesio solo la stessa persona. 

Scoprirete la verità sui sofisti e su Aristotele, cosa significhi la parola giapponese “mu” e l’universo che essa rappresenta, la grande idea di fondo del pensiero hippy e l’abbruttimento dell’umanità quando si chiude in una macchina e si ritrova incolonnata nel traffico mentre dal lato opposto della strada un tizio in moto sfreccia via, lontano da me, lontano da voi, lontano dal mondo, alla ricerca di risposte a domande che non conosce nemmeno lui.

giovedì 16 gennaio 2014

I want to be a part of it

Ho letto la biografia di Agassi quasi per caso. Nell’introduzione, il tennista ringraziava un certo J.R. Moehringer per averlo aiutato a scrivere il libro e gli confessava che il suo di libro (quello di J.R.) lo aveva commosso talmente tanto, da spingerlo a chiedere proprio a lui l’aiuto per la biografia a quattro mani. Non capita tutti i giorni di leggere una dichiarazione d’amore del genere, tant’è che, la prima volta che ho visto il libro di Moehringer tra i ripiani di Feltrinelli, ho deciso che dovevo leggerlo. “I bar delle grandi speranze”, questo è il titolo, è a sua volta la biografia dell’autore (il suddetto J.R.), né più né meno come quella di Agassi, con l’unica differenza che il secondo giocava a tennis mentre il primo era un alcolista e scrittore fallito. Sul retro della copertina, nell’edizione della Piemme, è citata una frase di Alessandro Baricco (non proprio l’ultimo arrivato): “J.R. Moehringer, obbiettivamente, è di una bravura mostruosa”. Mai giudizio fu più azzeccato. “Il bar delle grandi speranze” è un libro delizioso, ma più del libro in sé, con la trama, è deliziosa la scrittura di J.R. , il flusso di pensieri che trapianta al sé stesso protagonista e quasi cinquecento pagine che volano via come un niente, come via, volano quasi vent’anni di vita raccontata tra le righe. 

Il libro è come un immenso oceano, in cui parole e nomi e immagini e suoni, si susseguono armoniche, e armonico è l’autore che capitano della sua nave, solca le acque e ci guida leggeri attraverso la storia, senza che una pagina, neanche una singola pagina, risulti al posto sbagliato, susciti perplessità o noia. Ma quello che più di tutti affascina, è che nel libro, ci sono decine di personaggi, tutti descritti con cura ma mai né troppo ingombranti né troppo marginali. Decine di nomi ma nessuno che si possa dimenticare la pagina successiva, perché ognuno ha un’anima e J.R è bravo a dargli anche un corpo e a non farlo disperdere nel limbo degli eventi. 


Se penso a quanti capolavori della letteratura russa siano farciti di decine di nomi e personaggi che si perdono nel vuoto dopo poche righe: quanti sforzi per cercare di imparare i nomi e immaginare nella mente il profilo di un qualsivoglia maresciallo, che dopo due battute cambia strada e mai più rincontra quella del protagonista. “Il bar delle grandi speranze”, la cui trama non ho alcuna intenzione di svelare, potrebbe coinvolgervi per un mese, letto a piccoli morsi, o per due giorni, divorato nell’impeto di una curiosità che ti spinge avidamente a voltare pagina e cominciare un nuovo capitolo. Anche se ti si chiudono gli occhi, anche se domani devi alzarti presto, anche se vorresti gustarlo con più calma, anche se vorresti fermarti a pensare alle similitudini della tua vita e quella di J.R. , perso, come te, nell’analisi dei suoi limiti e dei suoi piccoli successi personali. C’est la vie.